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Il roadhouse, la legislazione, la Paura e la strategia

il7
[IL_7 SU…]

il7Nizni, a quanto pare non più vincolati a quel roadhouse a cui avevano legato il proprio nome dopo avervi tenuto miriadi di concerti, insaporendosi di bistecca e patate fritte, oltre che di pelli di camoscio, ci tengono a mettere subito le mani avanti: d’accordo che la geometria può essere questione d’opinioni, ma loro proven-gono idealmente dal delta del Mississippi, non dal triangolo delle Bermude.

Calpestando l’orlo dei jeans troppo lunghi capita allora di disseminare le proprie tracce e strofe lungo la pista lasciata da una donna (“Woman”) mentre una fisarmonica ci accompagna lungo il Nizni_2011percorso tracciato dall’ostinazione senza lasciarsi fermare neanche da un abbozzo di assolo di chitarra piantato lì a rendere accidentata la marcia verso l’abbraccio: “This is my heart, these are my arms, whisper in the dreams of the night”. La placida indolenza diventa quieta mistica della sopportazione in “Begin to smile”, un’altra ballata in cui la voce sussurra lo stoicismo del lonesome cowboy, il cui passo pesante si ferma a riposare solo dopo che un violino triste ha cantato il suo vagare nelle pianure. “What I said” ha un ritmo più cadenzato, sembra un blues da lavoro pesante, quando il corpo dice una cosa e la mente un’altra. Interessante il pattern per chitarra e batteria nel mezzo del brano, ma comunque la cadenza è giusta: se uno ha detto qualcosa seriamente in quelle condizioni, è bene ascoltarlo, prima di dire: “E’ meglio che si prenda una vacanza…” “Rise”, di cui è presente il video live sul loro myspace, si fa carico del passo strascicato e del cuore pesante di chi conosce anche le fatiche dell’amore, appena le avvista all’orizzonte, e con un indolente e caldo schi-tarrìo ritmico porta lo stanco vaccaro di Nashville a vedere il suo destino (ri)sorgere (rise) dopo aver avuto una visione di Hank Williams in una ricevitoria del lotto di Genazzano. “Rain road” vanta un arpeggio quieto e introspettivo, che entra in simbiosi con le mattine piovose e che, con toni compassionevoli verso chi conduce un’esistenza fragile, si autoinduce a pensare che una soluzione pietosa potrebbe essere tornare a stare con Lei, ma l’intimismo della sei corde ben arpeggiata lascia intendere che il ragazzo sia rimasto ipnotizzato da qualche pecora al pascolo, ed infatti l’armonica a bocca provvede a dare una coloritura alle gote, pur senza eliminare una malinconia che sta allagando tutto il Montana. “In the sand” è poggiato anch’esso sul pizzicato, ma la voce, qui con l’aggiunta di un controcanto solidale nel ritornello, ha la consapevolezza di un saggio narratore che sa come prendere le cose della vita e la ripetitività delle beffe senza andarsi per forza a sfogare facendo il tirassegno contro i cactus, ma piuttosto andandosi a rileggere certe storie tristi come fossero leggende del vecchio West scritte da qualcuno sulla sabbia della spiaggia della bassa California a marzo, pensando che l’ultima frontiera degli States è quella che col sostegno di una batteria rullante di vecchia gloria stinta, guarda verso l’oceano e, strizzando gli occhi, tira un sospiro, uno solo. “Winter”: la solitudine immobilizza come un con-gelamento, ed il sole anemico proprio non ce la fa a penetrare sotto le coltri di neve e la pelle intirizzita del montanaro; efficace fin nelle ossa, questa ballata in cui, sull’arpeggio cristallizzato, si staglia un ritornello che cerca di dare un po’ di calore a chi è rimasto in qualche modo bloccato tra i ghiacci o tra la gente. “I take care” non parla di qualcuno che arriva quindi con una provvidenziale stufetta e ci si mette a cavalcioni per scaldare il retto femorale; no, è sincero country-folk che elenca con l’armonia della semplicità le cose di cui non preoccuparsi perchè fanno da sole e, con genuinità segnata da un mandolino un po’ bluegrass, dichiara sotto un cielo terso di curarsi piuttosto solo “of you, of me, of both together”, di te, di me, e di entrambi in-sieme. Certe volte questo è già troppo, ma certe volte non ci si fa caso, come quando una voce femminile si unisce al trio di base nella ottima, lineare “Somebody help me”. Puliti ed immediati, Nizni (& the Roadhouse), sanno quello che fanno ma lo fanno quasi senza farci caso.

Ignorantia_legitIgnorantia Legit cercano sottilmente di farci realizzare che la nostra presunta ignoranza in fatto di musica non ci pone al riparo dalle critiche dei musicisti (Ignorantia legis non excusat), ma non si rendono conto che la locuzione latina non si riferisce all’ignoranza della musica, ma a quelle pratiche linguistiche non legittime che noi viceversa siamo stati costretti ad apprendere per scrivere così. Quis scribit, bis legit! Non abbiamo quindi bisogno di essere scusati da alcuno se, pur ciurlando nel manico, individuiamo in questo gruppo un’ associazione di interpreti che congiurano per far risuonare un rock dalla voce “legit”, ma non “trained in a classical or operatic tradition” come dicono gli anglofoni, ma piuttosto vera, “legale” nel senso in cui amici no-stri furbescamente laconici lo intendevano per indicare cose su cui niente c’era da dire, tranne che erano a posto ma non sensazionali, magari “cool”, ma anche, francamente, un po’ “ill”. Con questi presupposti, non sorprende che gli Ignorantia legit  affrontino tematiche intimiste ma siano anche critici verso questa società, anche se in modo responsabile e legale, appunto, come certi gruppi in Parlamento. Si tratta comunque di un buon rock maturo, su base italiana, con testi declamati dalla voice del barbuto vocalist con autorità cantau-toriale anche se priva di tonalità particolari, studiate allo specchio: “E la tua vita sarà piena di buon senso… Ti perderai, ti perderai… e sarà bello!”; ciò che è nel mezzo sono cosiderazioni  sull’opportunità di mettere a tacere dissidi, languori e fastidi, e allinearsi: “Milioni di passi da mandare a memoria, ti ricordi da dove vieni, e dove vai?.. E trascini I tuoi passi in percorsi obbligati… ma forse un giorno…”. Sulle fondamenta ritmiche, la chitarra solista diffonde un pulviscolo di scampanii solistici che segnano il percorso liberatorio consigliato dal saggio narratore. Sul lento, atmosferico “Temporale”, la chitarra solista si solleva fino a friggersi in un convulso ganglio, poi la perversione rumoristico-psichedelica prende il sopravvento, ed instaura un innesco di risonanza limbica tra le emozioni del desolato soggetto protagonista e le distorsioni dello strumento, che infine guarda in faccia la cassa e si svuota di ogni residua visceralità. “Ogni mia parola prende il vuoto, si libera nell’aria, perde il senso…”, recitava all’inizio il testo, e forse è per questo che dal vivo il leader sembra smarrire a tratti sui registri bassi la sua pienezza, spezzando incerto il fiato tra il ricordo di un Enrico Ruggeri arrabbiato (“…l’energia che esplode tra le nuvole… e somiglia a un temporale!”) e le incertezze dovute all’ indisponente certezza che “Non si può ingannare il Tempo…” “Gianni” ha il vigore di un riscatto sofferto, una rivalsa alla lontana su quel Gianni che al liceo sembrava più sveglio e che poi si è messo sempre dalla parte sbagliata; ma forse le cose sono meno chiare di così, perché lui viveva “di illusioni e di canzoni”, mentre il protagonista pensava solo “a come uccidere la noia”. Le fasi alterne tra impulsi rabbiosi e rallentamenti riflessivi vengono decise da una dinamica satura e da un bilanciamento acustico ben ponderato, in cui la chitarra solista garantisce adeguata coloritura. E’ per questo che anche noi pensiamo che quel tipo con “la fac-cia pulita, la camicia stirata”, e “una buona giornata” davanti, non ci convince, perché “per uccidere la noia” ha capito che deve “calpestare” uomini e cose! Abrasiva più che mai “I padroni dell’Impero”, la cui strut-tura dimostra una buona inventiva, provocante, dà voce a coloro che spadroneggiano facendolo passare per normale: ““noi che siamo sempre i primi della lista, noi che siamo gente di sostanza…”, il ritmo è una marcia, ma nel bridge apocalittico si fa il vuoto, e Loro annunciano al megafono: “Ultima chiamata per i dissidenti, sta per affondare la nave dei perdenti…”, l’impasto sonoro è crudo e intriso dei veleni della decadenza imperiale, è l’involuzione tangibile d’un’umanità raggelata, istigata ad andare avanti a “tolleranza zero”. Dopo delle drammatiche punteggiature ritmiche ed un breve assolo che getta una luce livida sulla cronaca di questi anni, la voce di Emiliano Rapiti interpreta noi che stiamo da questa parte della trincea: “E salirà dal fondo la rabbia che hai nel cuore, no, non voglio affondare…”, ed il trio combatte, tra i piano ed i forte gestiscono una musicalità piuttosto sicura, in cui le parti strumentali potrebbero anche estendersi di più, volendo.

I Big Kauna prendono, com’è evidente, il nome dall’omonima (a parte l’H) commedia del 2000 conBig_Kauna Kevin Spacey e Danny DeVito, e raccontano infatti che dopo una lunga fase di addestramento basata sulla presentazione di repertori di cover dal vivo, si son guardati in faccia e hanno capito che quel loro destino doveva essere solo temporaneo; ora, appena entrati nel loro terzo anno di vita come collettivo stabile composto da tutti titolari fissi e di qualità, aspettano anche loro, come nel film, di sapere che faccia avrà la loro grande occasione, ma intanto hanno avuto la loro… “Idea”. Questo brano dai testi in italiano che si interrogano sull’idea che abbiamo di noi e degli altri quando realizziamo che il tempo ci trasforma, presenta una tessitura anch’essa mutevole, realizzata dalle due chitarre, che si intersecano creando veloci pattern sopra una batteria ed un basso capaci di procurare la dovuta densità senza dare l’idea del malloppone, ma piuttosto di un crogiuolo di stimoli sonori. La voce, di chiara personalità e ben registrata, si impone come quella di un baldo giovinastro che ne ha viste più di quanto la sua età avrebbe dovuto permettergli ed ora può fare previsioni con tono da profeta su cosa farà lei, o dare consigli, come una forma di nostalgia (per un passato che si vorrebbe correggere), come recita il monologo finale del film. “Acqua (acoustic)” è una ballata con sfrigolii sinistri, all’inizio, forse increspature sulla superficie d’un incantesimo liquido, come sembra suggerire l’arpeggio ipnotico: “E’ tutto qui, tra le tue mani bianche… nel tuo abbraccio, così grande…” Nell’assolo, la chitarra solista soffusamente si stende in un nastro allucinatorio ma soffuso, prigioniero di una morbidezza fatale: “In questo eterno ritornare tra le tue mani bianche, quiii!” Assolo che riprende poi nel finale, ancora più sonoro, il richiamo insinuante d’una sirena da un mondo placentare, l’eco ripetuta di una donna fatta di spirito, per cui ci si perderebbe perfino in un altrove indefinito… In “Umido”, l’approccio vagamente funky dell’ armonia chitarristica sembra screziare di sensualità l’impostazione indie-grunge, ma poi sembra che siano basso e batteria a creare in modo insolito l’ambientazione, per un interno, notte in cui, tra rintocchi emotivi e sudati contatti, il protagonista sente il suo “corpo umido, come se tutto quello che c’è intorno fosse umido, ed il corpo livido, come se tutto intorno fosse rigido”; niente di erotico, quindi, anzi, le rigidità sono quelle di un baratro in cui l’uomo è confinato,, ma la vigoria di una chitarra tosta, scivoloso appiglio, basta infine a farlo inerpicare in una bella prova vocale, farlo insorgere contro le oscure gabbie, farlo tornare a respirare “libero, senza pau-ra…”, erompendo dal buio della Paura. “Senza fretta” è invece il modo in cui lui vivrà, facendosi prestare da lei lo sguardo, le mani, etc, e mettendole lì dove poserà il suo sguardo rinato, in cui il ricordo è il continuo tintinnare contrappuntistico di una chitarra complice di quegli incanti che poche volte, per il tempo d’una can-zone, ci accompagnano nelle nostre ricostruzioni. L’assolo decanta un mood positivo, riuscito, chissà come, a ricamare poesia su un rimpianto insopprimibile. “Sarò io a ricordarmi di te!..” La tecnica è impeccabile, il gusto compositivo è indubbio, il sentimento non manca, ed il progetto ha prospettive coinvolgenti, che “senza fretta” si evolveranno ancora.

Eves_mirrorGli Eve’s Mirror, nati nel 2008 dall’unione di tre Globetrotters (questo il nome del gruppo di partenza) “replicanti” dei Red Hot Chili Peppers, più la volontà, aleggiante nell’aria, di recuperare l’influenza di band fine anni ’60 – inizio ’70 come Led Zeppelin, The Who, Pink Floyd, più un batterista capace di stargli dietro, iniziano a produrre inediti e a portarli a spasso. Fin qui, tutto pacifico; ma se poi, a novembre 2009, si vince il Festival Roma Rock Giovani 2009, anche i più distaccati cominciano a pensare che il quartetto non sta solo a rimirarsi nello specchio di Eva, ma fa sul serio. “Baby” uno dei tre pezzi presentati in quell’occasione, inizia come un dialogo armonico-melodico tra la voce e la chitarra solista, che morbidamente cinge di premure il testo in inglese, poi la batteria spinge il pezzo su territori da sentimentalismo selvaggio da tramonto del flower power, e la voce, capace di sostenere lo sforzo e l’effusione emotiva di lunghe note, regge il confronto col modello zeppeliniano; anche l’assolo, distorto al punto giusto, comunica, e quando torna la quiete sogna-ta appare ancor più il ricovero d’un corpo senza posa iun cerca dell’anima. “Crazy head – demo live” appare come una brillante jam di chitarre e batteria, nello spirito dei ruggenti anni della controcultura in cui sem-brava che si suonasse come se fosse l’ultima cosa che si sarebbe fatta prima di scoppiare di energia. L’entusiasmo, le qualità e la verve non mancano, ma il testo in italiano ed il contesto sociale drasticamente diverso lasciano qualche dubbio, purtroppo, circa le possibilità che questo gusto abbia di tornare in auge presso il grande pubblico, anche se quando le capacità si accompagnano alla “testa” le possibilità si aprono. Ed infatti, ecco “Punti interrogativi”, in cui il ritmo percussivo scalpitante crea un sostrato interessante su cui lo spunto di chitarra ammicca in continuazione, creando l’attesa per qualcosa che discenda, parimenti, dalle parole, stavolta in italiano: “Vivo a volte l’esistenza di vite spezzate, anime andate. Strade piene di pensieri, quale prenderò?” Tutto sembra pilotato verso un pop-rock più commestibile, ma non banale, complice un filo di tastiera, finché: “Timori avvolgono i miei sensi, ma cosa accadrà?” Qui una pausa di riflessione viene a-perta senza grosse intuizioni, e poi si riallacciano i lembi della struttura; “Imprigionato dalle scelte di una fal-sa libertà…”, il gruppo ha salvato le sue impostazioni puntando sul finale strumentale: un assolo di chitarra introdotto e seguito da altrettante parti per tastiera, ma il tutto poteva anche essere più intenso. La strategia compositiva sembra essere quella giusta, ma quando il gruppo decide di calare i suoi assi, deve farlo con convinzione: nulla impedisce di piazzare un assolo davvero “grasso” (come in “Lontato – live”) o magniloquente in un pezzo più contemporaneo, si lavori dunque sul crossover, perchè l’identità va difesa, addolcendo uno slogan proprio di decenni fa, “chi si astiene dalla lotta… fa male!” 😉

Il_7 – Marco Settembre

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