Gli autoblindi, il sottotesto televisivo, le scogliere
[RUBRICA IL_7 SU…]
Same old fears non sono solo le parole che precedono “…wish you were here”, nell’omonima ballata dedicata dai Pink Floyd a Barrett, nè le minacce della mente che Barrett non riusciva a scacciare, è anche il nome identificativo di un gruppo che insiste a vampirizzare il mood di Seattle malgrado i tormentati della prima era grunge non fossero mezzi bruciati per le ore passate con gli occhi incollati su Internet, ma per altri motivi.
Però nulla ci impedisce di pensare che questi giovani musicisti siano originari dello stato di Washington e già impegnati in band yankee e che siano stati solo “prestati” a questa nuova formazione (come si usava a Seattle tra ’80s e ’90s), giusto per togliere un po’ di “paure” di dosso alle case di produzione italiane, timorose che degli Axel Rose e Kurt Cobain nostrani si accapiglino magari sul palco dell’Ariston! E’ forse a qualche impresario plasticoso che i “Same old fears” rivolgono il loro motto: “Use tour hands to wash away the mud”. “Mud” inizia con una stridula e minacciosa chitarra sotto cui si addensano malloppi grezzi che montano come onde di asfalto caldo spinte dal temporalesco riff ritmico. La voce è ruvida e si avventura nelle strofe come un cane sciolto tra le rovine della metropoli post-atomica brulicante di bizzarri autoblindi costruiti con saracinesche e griglie per l’aerazione. Nel break, sembra comparire da dentro l’e-norme cofano una donna guerriera che vuol essere posseduta a tutta velocità su quel che resta dell’autostrada. “Paint overdose” è un’esperienza sonora arroventata comune a tanti nostri amici pittori, che per pompare l’ambiente caricano di suoni ruvidi i loro atelier per poter resistere al sovradosaggio di pittura che li rende così dannati e resistenti alle asperità di quella che alcuni chiamano la bella vita. L’assolo acuto è inizialmente sporcato dalla seconda chitarra, sprezzante verso gli avvocati di Boston, e decisa a “fare la fame” con una soddisfazione indecorosa. “Same old fears” è invece sbracata su divani tagliuzzati, nell’attesa che la rabbia si ricarichi e porti lontano dalle miserie del’autocontrollo, infatti parte una lotta contro le zone d’ombra che intridono una via già difficile, ed il ribellismo infine conduce il brano via, in un trascinante incalzare all’unisono delle due chitarre, affiatatissime nelle loro sugose sovrapposizioni, grintose e aprioristicamente contrarie alla depressione indie-emo. In “Romance” c’è un arpeggio elettrico e poi un pianto acido di chitarra elettrica che introduce il cantato su sottofondo pianistico, che sembra scrivere il presente su pagine di un diario che un giorno sarà leggenda e per ora è incertezza. “Soulkillers” è metal adrenalinico con cigolii d’acciaio ed una sezione ritmica possente che avanza a scariche, mentre la voce si destreggia evitando agguati e bombe nei vicoli dei sobborghi, e la chitarra solista insegue brandendo baionette ricurve ed i cambi di ritmo conferiscono dinamismo al sound, come anche in “Shot from Heaven”, in cui frames diversi di una stessa realtà sembrano essere trafitti dallo stesso dolente ricordo di una lei morta che con esso fulmina, da un’altra dimensione, ogni volta che il protagonista tenta di rifarsi una vita; la batteria è un martirio torrenziale, e la chitarra solista trova un riff che unisce melodia alla sostanza drammatica.
I Fronteretro non mostrano opportunisticamente due volti come una faccia fasulla di vinile o come un amico infido che si atteggia a Giano bifronte, no; loro plausibilmente cercano anzi di rivelare il lato nascosto delle cose, perché sono rock al 100% e l’hanno dimostrato in diversi contest musicali dal 1999 ad oggi ed entrando in rotazione su diverse radio nazionali, inclusa Radio Rock. Il giro di basso che apre “Fuoricatalogo” introduce una sezione ritmica che però si stoppa per far spazio ad una voce sicura che imposta una cadenza andante e mossa, in cui “eroe di me stesso, sarò sempre come sarò, sempre fuori catalogo”; nel bridge sordo basato sull’incalzare della batteria la voce orgogliosa enuncia i pregi del suo carattere, che non trema neanche di fronte a un Ligabue:
“Non ho paura di jolly e di fanti, non ho paura di quattro cantanti, non mi nascondo, non voglio imitarvi, gioca con tutti, ma non con i santi!”. Poi la chitarra produce un arpeggio elettrico su cui lo sfrigolìo di una seconda chitarra si innesta in un intersecarsi corposo che conduce al grintoso finale. In “Pseudovivo” un inizio rock-funkeggiante, articolato su echi chitarristi si tiene su molleggiando sulla voglia di tenersi su pur restando “sotto tiro”: “Fuori un mondo tiepido, ed io che prendo fuoco”. L’arpeggio sottile, cri-stallino, è sospeso sul basso profondo in un’atmosfera da laboratorio emozionale anti-scientifico, un poco credibile sottotesto televisivo: il partecipante al reality è felice di sentirsi costretto a far sembrare “…tutto quel che non è (…) Strano, allora passa da qui il prodotto giusto per chi? Tu che non hai niente da dire, sei only a game, reality dei sogni tuoi, sei tele-illuso, sotto tiro, sei pseudo-vivo!” , e le frasi in sequenza si incastrano tra i doppi vetri del microscopio psico-sociale. “Come sei” è dapprima quieto, indagatore, l’interpretazione vocale di Fabrizio Celea è matura, regge sia le equilibrate pensosità che le alzate di tono del ritornello, il quale riassume le impostazioni psicologiche conquistate, in una costruzione che cattura melodicamente, senza abiurare l’approccio rock: si veda la puntualità non banale del sostegno ritmico e la svettante liberatoria pulizia degli assoli chitarristici, ben calibrati, non prevaricanti, “rugiada di mattina… sto avendo più di quel che ho dato, se resti come sei”. “A tu x tu”, analogamente, cerca di porre chiarezza, con dolcezza ma decisione, in una relazione in cui qualcuno pretende “tutto al suo servizio, senza trovare una via di mezzo”. Il ritornello è di una sincerità dolorosa, perché appartiene a qualcuno che non vuole “esplodere dentro”, “se hai da dirmi qualcosa, dimmela a tu per tu”. L’orecchiabilità è garantita, la muscolatura è allenata, la tecnica affinata, l’orientamento è straight, non ci sono criticità, ma piuttosto l’esame ben sentito di situazioni psicologiche di chi non è “condannato alla falsa verità”, con “questo cuore senza età”.
AnotheRule è un progetto con un chiaro respiro internazionale, cioè con evidenti ascendenze brit-pop ed alternative rock, che merita un ascolto attento e non l’atteggiamento supponente e distaccato insieme che hanno certe audiences italiane che tenendo le braccia conserte fissano immobili il palco come a dire “Beh? Chi siete? Che volete fa’? Non mi fa nè caldo nè freddo”. Dev’essere pos-sibile “un’altra regola”, che stabilisce con garbo una partecipazione consapevole, perché non è affatto scontato che dei musicisti che hanno ben saldo il legame con Londra (il cantante James B. Rossetti è inglese e con Marco DeMasi già furono messi sotto contratto con i Mayday Murders, in the UK, diversi anni fa) siano disposti a riproporre entro i confini italici quel mood che chi non ha passeggiato per i docks o vagato nelle brughiere o si è rincorso lungo i vicoli di mattoni rossi non afferra al volo. Ma non vorremmo neanche farla troppo lunga, basta l’ascolto di “All in”, con l’allarmante e ossessivo segnale e la morbidamente dissonante chitarra dell’assolo a proiettarci in orizzonti grigiastri in cui la sperimentazione è l’unica salvezza dall’ alienazione. “So long…” è un saluto a mai rivederci a chi caracolla facendo facce di circostanza e si crede più furbo, e stona rispetto a quei fratelli che si mostrano solidali nei confronti del sottoproletariato urbano. “Getting old” è un altro brano che ansima sotto la pressa di ritmi ed effetti industriali, mentre la voce sembra uscire da un megafono appeso ad un palo ai margini dello stabilimento e cerca di trasmettere incitamenti post-umani come in un tristissimo scampolo da “Grande Fratello” orwelliano. Lo spirito punk pare che spinga questi giovanotti dai gusti ben consolidati a tenere, in “Standing up to fate”, un contegno musicalmente intransigente con chi cerca di manipolarli od imporre loro una disciplina da colletti bianchi; i loro ritmi a volte flat da 4/4 sono invece l’espressione di un ribellismo che sopravvive a se stesso ed ha dovuto ingoiare il desiderio di poesia. Poesia che riemerge malinconica galleggiando sulle lunghe note di “AnotherRule (Acoustic Set)” e su archi struggenti che calano giù a picco dagli arpeggi come le alte scogliere sull’Atlantico, da cui il mod Jimmy, in Quadrophenia, fece volare lo scooter. E la citazione è motivata anche dalla circostanza che gli Another Rule hanno battezzato “Reign over me” il loro EP, e “Love reign o’er me” era il titolo del secondo singolo del disco Quadrophenia de-gli Who. Anche se va precisato che, secondo il gruppo, “regna su di noi” è una sarcastica constatazione riferita al Sistema, mentre l’Amore fa un po’ più di fatica, tuttavia l’influenza britannica, mod o punk, prevale sulle altre fonti di ispirazione, e anche il titolo “All in” (altro brano efficace) non significa che ci sia dentro un po’ di tutto: la vibrazione di base è narcotizzante, da flippato dei club per esteti “contro”, e il riff stralunato e insistente riporta a certo glam rock sperimentale, come l’assolo distorto e allucinato e la voce filtrata, da manichino nevrotizzato che entra in tilt al tocco di una biondina della middle class che si rifiuta di studiare ragioneria!
Il_7 – Marco Settembre
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