Radical Jewish Culture: un po’ di New York a Parigi
[ARTI VISIVE]
PARIGI – Se si ha la fortuna di passare qualche giorno in visita a Parigi il quartiere del Marais, conosciuto soprattutto per la sua bellezza lontana dal gusto della Parigi haussmaniana dei grandi boulevards, per la Place des Vosges, per le boutique alla moda e per alcuni fra i locali notturni più di tendenza della capitale francese, è una delle mete che un visitatore non può senz’altro ignorare.
Noto anche per essere il luogo di ritrovo e culto di una delle comunità ebraiche più numerose della capitale francese e visitato anche per le ottime specialità kosher che è facilmente possibile gustare, questo meraviglioso quartiere ospita un sito che viene spesso trascurato dai turisti e dai parigini stessi. Si tratta dell’Hotel de Saint Aignan, al numero 71 della Rue Vieille du Temple, che dal 1998 è sede del Musée d’art et d’histoire du judaisme (Museo d’arte e storia dell’ebraismo) in cui è esposta in permanenza la collezione dal museo privato ebraico della Rue des Saules e che accoglie anche espozioni temporanee legate alla cultura e alle realtà artistiche di origine ebraica. In questi ultimi mesi ha catturato l’attenzione di molti (locali e non) una mostra piuttosto insolita per i canoni del museo in questione, intitolata Radical Jewish Culture e incentrata dunque sull’omonimo movimento d’avanguardia musicale fondato nei primi anni ’90 da John Zorn, realtà fondamentale della scena musicale newyorkese attuale.
Organizzata parallelamente a una serie di concerti che nei mesi di maggio e giugno hanno avuto luogo a Parigi in cui si sono esibiti molti dei componenti del movimento (Anthony Coleman, David Krakauer, Mark Feldman, Sylvie Courvoisier, Joey Baron, John Zorn, ecc…), l’esposizione propone attraverso documenti fotografici, copertine di dischi, partiture, manoscritti, filmati e soprattutto ascolti, un percorso di ricostruzione delle ragioni e del perché tale movimento musicale abbia preso vita, mettendo prima di tutto in luce l’idea di fondo da cui nasce questa corrente artistica, ovvero la cognizione del fatto che la musica ebraica a New York è da sempre esistita e che la formula choc avanguardistica della serie di dischi usciti sotto la stella della Radical Jewish Culture è qualcosa che ha permesso a molti dei musicisti della scena downtown di interrogarsi sulle proprie radici e porsi una serie di questioni importanti, non solo di natura estetica, sulla cultura tradizionale ebraica – di certo portatrice di un bagaglio delicato da trattare – riguardo alla trasmissione e alla possibilità di trasgressione di essa, nel rispetto e nella comprensione di essa.
Come è spiegato nei pannelli della mostra, la radicalità cui richiama il movimento è un atteggiamento richiesto nella misura in cui rinvia al trauma della Shoah ma anche alla radicalità come nozione sempre presente nella creazione artistica, come mezzo di interrogazione per capire qualcosa di molto profondo che nel caso specifico riguarda il significato dell’essere ebreo oggi e quanto e in che modo ciò possa influenzare la creazione musicale contemporanea.
Andando avanti nella visita si comprende a poco a poco come l’impresa artistica di Zorn e soci sia stata e sia a tutt’oggi responsabile e impegnativa, di come a ogni passo – sin dal concerto-manifesto di Monaco (estate 1992) con cui si inaugurò la nascita del movimento – di cui nell’esposizione sono disponibili molti dei filmati e delle registrazioni – sia arduo il compito di riuscire a conquistare l’ascoltatore osando soluzioni musicali violente (di cui è emblema l’album Kristallnacht), attriti dissonanti che spesso raggiungono il limite dell’inascoltabile e che in un certo senso permettono a musicisti e intellettuali che fino a quel momento si erano sentiti parte di una cultura senza interrogarsi sull’importanza di una scelta a riguardo di passare attraverso una forma di consapevolezza sicuramente non convenzionale e di arrivare così a una presa di coscienza.
E’ così che in molte interviste alcuni degli artisti principali del movimento, quali John Zorn stesso, Marc Ribot, Anthony Coleman, Ray Nathanson (Jazz Passengers), parlano della creazione degli album che si inscrivono nella Radical Jewish Culture – di cui fa parte naturalmente il progetto Masada in tutte le sue declinazioni e per intero nella sua discografia – come di una possibilità di affrontare il peso della tradizione, e con essa dunque le problematiche della Shoah, della questione di Israele e del processo di pace, e di un effetto liberatorio che consiste nell’affermarsi come ebrei al di là della sola questione dell’ebraismo.
Riguardo a una mostra del genere, non si può insomma far altro che sperare che arrivi prima o poi da qualche parte anche da noi in Italia.
Alice Salvagni
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