Il futuro, il catatonico, i tempietti, l’arrotino
[IL_7 SU… ]
I Marvele hanno un tratto fumettistico effervescente riconducibile forse alla Marvel Comics, a tratti altrettanto futuribile, tuttavia non si lambiccano il cervello a capire chi vincerà tra Hulk e Bin Laden, ma si identificano di brutto con i Fantastici Quattro, riuscendo a riprodurne la formazione senza alludere ai Fab Beatles.
Gabriele Dipino: voce e chitarra acustica, Simone Coppi: chitarre (tutte!), Fabio De Angelis alla batteria e Daniele Dencs al basso. Il Dipino, frattanto, non disdegna partecipazioni di valore strategico alle iniziative promozionali di Alessandro Coppi, il talent scout che aiuta ragazze intraprendenti ad emergere nel mondo dello spettacolo, sottoponendole al giudizio di un Comitato di Pappagalli VIP. E per favore, non dite: “Ma dove andremo a finire?!..” “Angie”, la hit è un rock andante con una garbata effettistica che accompagna la ritmica con una modulazione impaziente che spinge nel cuore di Angie la rossa finchè non trova il coraggio di lasciar andare il ritornello liberatorio per sciogliersi dalle pastoie di un rapporto noioso con un compagno forse schiavo del suo divano preferito, per lanciarsi su piste infinite, “Libera, voglio essere libera, voglio essere ciò che non sei tu”, on the road verso il rock! La voce ha una tonalità piana che si distende sulla musica senza coprire la narrazione. “Mare Nero” si evolve da sordi echi di venti mefitici e risucchi portuali scratch dove non si mollerebbero mai gli ormeggi, poi si sviluppa in un rap evocativo le cui linee si sbrogliano in un refrain lamentoso in cui “E’ sottile il confine tra dolore e perdono… Mare Nero riflette il mio pensiero”. La tastiera nel finale traccia un orizzonte salmastro e fetido in cui il misticismo pessimista è l’unico ormeggio. “Dal futuro” è una visione dinamica articolata su un riff simile a rintocchi della fine, e a un testo da predicatore viag-giatore nel Tempo “Non c’è niente di umano da vedere, il virtuale figlio della Rete ci intrappolerà”, c’è un intermezzo con un annuncio parlato, prelevato forse da una Radio Kaos del futuro, e l’o-recchiabilità è fatta salva in nome di chissà quali compromessi con la bile. Beffardamente bla-sfemo è il messaggio ricorrente, acre e cantilenante insieme, il testo non nutre molta fiducia sul destino delle umane genti e progressive, perchè guardandosi intorno “La genetica avanza, sco-pre la coscienza, quante facce può avere il mito della scienza”. Un intermezzo di chitarra, voluta-mente inceppato, esprime un singulto, prima dei passaggi finali, coronati da un ottimo assolo elettrico, e da sventagliate ritmiche che si avvoltolano nei pastrocchi “avanzati” della società dello sviluppo tecnotronico del privilegio. “Sfuggito al controllo” è costruito su un riff di chirarra che sembra posseduto da un “vibrato” ed introduce a strofe in cui l’insubordinato, il non allineato, si spiega: “cerco una nuova dimensione che mi liberi dalla noia, in cerca di spirali ipnotiche per dimenticare”; forse sfugge ad un totalitarismo impiegatizio, ma invece no: “Perchè io sarò insod-disfazione, ti confonderò, sarò la tua ossessione, prova a prendermi, sono sfuggito al controllo… ormai da tempo”, non si sentiva capito da lei, il suo talento da rock-stalker con le backing vocals era soffocato da una relazione stabile, ora – invece – della prevedibilità di lei farà un format televisivo! Questo dei marvelous Marvele è un pop rock che però conosce anche il lavorìo per-cussivo, per incorniciare gli occhi di “Cortes” (“diamanti che l’oceano ha nascosto”), e gli accenni di chitarra funky non possono compensare “gli anni di patrimonio culturale massacrati nella loro terra naturale”, ma allestiscono un sound accattivante, pretesto per un commento storico-psicologico sull’avida epopea del Conquistador: “E’ labile l’intento di avanzare una pretesa che giustifichi l’orrore, se “il diverso” per te non ha nulla di speciale!..”
Kruk è un progetto che con le sue varie influenze, regala ai suoi confini sfrangiati un soffitto alto che sconfina col raggio di una visione, e delle pareti che sono sagomabili e a scorrimento veloce, per far posto alle continue inserzioni di elementio che dunque ci si aspetta siano sorprendenti, e non nate e morte in una stanzetta prove stretta come una scatola di sardine! E infatti… suoni campionati da una pendola del 2700 echeggiano nel vuoto di un vecchio centro commerciale adi-bito a zoo per quegli androidi che sono fissati con la necessità del sorriso, ed i cinque musicisti, fissati viceversa sull’ipnotismo sperimentale, fin d’ora contestano questa prospettiva ingrata chiu-sa da cristalli liquidi tenendo gli strumenti freddi con le mani conserte, e rabbrividendo con gli occhi umidi di pianto come se un alarm clock li avesse appena svegliati in un futuro da cella splitscreen frigorifera. Il pezzo è tutto strumentale e si evolve in un etereo stupore rarefatto. “Ban-lieue”, similmente, si presenta come un risveglio pacificato e freddo in un blocco di prospettive in cui solo l’inquieto miagolio elettrico della chitarra e poi la percussione elettronica animano una periferia metropolitana sedata col Valium. “Homeless cowboy”, su un sottofondo psycho, sembra cantata da uno stregone Navaho che cerca soddisfazione infestando i sogni del cowboy che dorme a novembre in un’automobile non sua, nel Nebraska, con le immagini di bufali che cadono su lastre di ghiaccio, e questo mentre un messicano con la faccia rovinata sta lentamente avvici-nandosi alla macchina con un coltello, deciso a farsi consegnare portafoglio e stivali. “Aside” è il congelamento, laterale e vissuto a parte, di un lavoratore catatonico che riesce solo a vivere in un numero limitato di ore, da quando torna a casa rimbambito e con gli occhi fissi nel vuoto, fino a quando va a dormire le sue quattro ore per notte. In quel frattempo se ne sta sul suo terrazzino quadrato di un metro per un metro, fissa la luna e pensa a tutte le cose che non esistono e che possono entrargli in testa; sono tante e piccole, le uniche che gli fanno compagnia. “More in weekdays” è l’innalzamento di un paranoico in un oceano di speranza artificiale, grazie a xilofoni che avvolgono tutti coloro che lo assillano in un’aura taumaturgica forzosa che gli permette di non pensare alle bustine di sostanze psicotrope, calmanti e stimolanti, e affogare ogni atto ed ogni parola che lo possa riguardare, in un tessuto post-rock falsamente distensivo e metafisicamente deviato – ereditato da un Brian Eno desolato dall’esperienza di “No pussyfooting” con Robert Fripp – che ammalia e convince a stare fermi, pensare che non c’è niente da capire, e trattenere le emozioni senza fare danni a parte l’autoparalisi.
The Dark side of Venus mostrano il loro volto opalescente a questo pianeta da quando Licia Missori, pianista di impostazione classica e compositrice, sente che il proprio mood oscuro trasuda al punto da richiedere dei complici per meglio gestirlo e rilanciarlo in forma musicale verso vittime consenzienti. Si contorna dunque di altre due fanciulle dalla conturbante fragilità apparente (una perfida esca) per richiamare su di sè le attenzioni di due musicisti di sesso maschile, resi immuni agli aspetti notturni del suo fascino grazie a chissà quali sortilegi… In realtà Riccardo Pinto, bassista co-fondatore, da tempo la assecondava aspettando, in cambio, di essere reso irresistibile per le numerose fans. La tensione chiarristica, pur presente nell’impasto di “Vampires”, è schiava di un’armonia fatale prodotta dai liquidi incantesimi pianistici della Missori e dalla diafana eppure sicura presenza canora di Livia Alcalde; Ludovico Trombetta alla chitarra si staglia poi in afflati solistici che dimostrano che il sentimento conosce vette di passione dolorose che in certi momenti sembrano sottomettere tutte le elucubrazioini affastellate in fasi e fasi di rigiramenti oculistici con il rimmel che cattura stelle imprigionandole tra i pensieri e le lun-ghe ciglia da streghetta. “He walks around” è più ritmato, imbastito su un complesso giro di basso; a metà brano un assolo opaco di chitarra sembra zigzagare in un contesto jazzy, poi la ripresa indie riporta il brano in territori rock, ma i vocalizzi aggiunti alla parte vocale rende il pezzo inclassificabile, come vogliono i componenti del gruppo. “Mr. Sin” è uno splendido brano malinconico forse su un tizio che deve aver commesso qualche errore per eccesso di auto-fiducia, prima di divenire satellite forzato di quelle ossessioni che con tanta applicazione si era disposto a costruire con devota applicazione. La melodia è di una bellezza estraniante, e la gravità dell’ ossatura chitarristica sostiene una dolcezza resa vaga dal dolore accumulato in serate gotiche presso tempietti invasi dai rampicanti. “You will find me” è una lenta ballata, un’altra classicheggiante cattedrale edificata su antichi rimpianti ma aperta a spazi per la definizione scultorea di un’anima che di continuo apre gli occhi della mente su creste di brune montagne, gemme pianistiche in roveti isolati, e specchi d’acqua simili a pozze di lacrime sacre. Le influenze sono molteplici, e spaziano dai gruppi di area gothic a Frederick Chopin, dai Cure ai Muse, senza dimenticare i Marillion (se il riferimento è al periodo con Fish, non potrà essere sfuggito il brano “Incubus”, un “notturno” mostruosamente attuale. Licia, lo conosci?). Mi compiaccio: grande tecnica, arrangiamenti ed espressività!
Devo avvertire gli Otsunami che io, contrariamente a quanto dicono le statistiche, come prima cosa ho letto la loro bio sul Myspace, e sono rimasto impressionato non tanto dal tritato di espe-rienze assurde che li hanno forgiati, dall’autoerotismo forsennato (ma chi ci crede?) alla pasta con sugo, pesto e tonno, ma soprattutto dalla estrema inaspettata coerenza con cui traducono tutto ciò in una musica concepita espressamente per subissare di trovate e suoni chi si è salvato dagli tsunami mentali preparati per noi dal governo. “B. G. D.” è lo strano scherzo indie schizzato che fa un arrotino in coma (sentite i bip bip dei suoi biogrammi?) ad un’ospedale pieno di fottutissimi dottor House che con assoluto distacco vogliono salvarti dalle infezioni cutanee con clisteri al grasso di foca: lui finge di essere steso con gli occhi sbarrati e le dita nel naso, ma prima che quelli possano fargli un tampone faringeo, lui si trasforma in un Enrico Papi metal e mitraglia ketch up bollente dalle ascelle taurine! Il cantato è un rap un po’ compassato, vagamente british, mentre le sbroccate portentose sono intervallate da fasi in cui il collasso nervoso si manifesta con logorrea e assoletti a tratti funky, più spesso geometrico-epilettici, sul finale articolati in stop&go, prima dell’appiattimento del diagramma: non si schrerza con la salute! H2O sembra dapprima una ballata strumentale, su un nerd con una complessa vita interiore che si cuoce dal caldo ai margini d’una piscina perchè non sa nuotare, poi invece il ritmo diventa più sostenuto perchè al passare del tempo, lui sente irrigidirsi qualcosa negli slip, e non sa se è perchè ci sono presenze femminili da urletto, in giro, o se è perchè gli sta venendo fame di prosciutto crudo a metà matti-nata! Forse è per questo che l’arpeggio nella prima parte è tanto comunicativo, “Autoignition” invece presenta l’erompere assatanato di un altissimo wall of sound, e a tratti la velenosa ancorchè disinvolta presentazione di agenti incendiari della NASA venuti a controllare se i comunisti prendono fuoco, se aiutati dai lanciafiamme, o se i deputati repubblicani devono commettere qualche porcheria per fargli infiam-mare gli animi! La sezione ritmica crea un sottosuolo di faglie tettoniche in fermento da cui pro-vengono vermi cicciotti che si sa da che parte stanno; la piscina sbava e la gente, in rivolta, sputa qualunquismo da tutti i pori. “Insomnia” è quella che ci assale qiuando, dopo aver sussurrato, come all’inizio del brano, “Resisti, vai avanti”, decine di volte, un intreccio di reazioni intracraniche ci detta il rifiuto irragionevole del riposo, e tra cambi di ritmo e lancinanti frasi musicali destinate a conficcarcisi nel nervo ottico invece che in quello acustico, ci viene davanti agli occhi la faccia stravolta dal sonno di Al Pacino, che, nel film omonimo, in fondo si sbatte tanto per arrivare a fare un mazzo tanto ad un Robin Williams superficialmente improbabile come cattivo, almeno quanto i Faith No More ed i Primus sono invece plausibili come influenze schizotimiche per questa mani-festazione roboante e seghettata di crossover elefantiaco e purulento!
Il_7 – Marco Settembre
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