Afterhours: dire la verita’ e’ un atto d’amore
[MUSICA]
ROMA- Diciamolo subito: gli Afterhours mi piacciono e anche tanto. Perché sono una delle poche realtà italiane – in attività – degne di nota, una delle poche cose in circolazione in grado di farti dire che ne vuoi sempre di più. Sia live che in studio.
Ma “dire la verità è un atto d’amore, fatto per la nostra rabbia che muore”, no? Per questo mi crea una dissonanza ancora più potente il fatto che, durante quel concerto al Roma in Rock dello scorso 21 luglio, osannato dai più come un ritorno ai veri Afterhours, agli Afterhours storici – come leggo su forum e social network –, io abbia percepito come l’assenza di qualcosa: di una vena emotiva che invece avevo rintracciato in altre loro esibizioni live. La scelta è consapevole, ed è evidente. Lo è fin dalla formazione scelta: a cominciare dalla presenza di Xabier Iriondo, chitarrista storico del gruppo, e dalla mancanza di una tastiera o qualcosa di simile, a indicare l’assenza di incursioni in territori musicalmente più intimi.
A chi potrebbe rimproverare la mancanza di comprensione di un simile ritorno al passato, rispondo dicendo che a volte il ritorno al passato è sinonimo di incapacità di rinnovamento, o comunque il segnale che qualcosa è fermo: una sorta di autocelebrazione, che in sé non ha nulla di male, ma che non aggiunge nulla.
E a chi, ancora, potrebbe dire che i veri Afterhours sono quelli – come ho sentito ripetere millemila volte –, mi verrebbe da dire che forse la colpa non è stata tutta della band milanese: volumi sparati, non eccellenti, in cui a volte la voce di Manuel Agnelli si perdeva anche per “colpa” di un pubblico estremamente affettuoso e canterino. Talmente canterino da infastidire il frontman, che si sente costretto a modificare il cantato (con discreto disappunto alla De Gregori) e a dire all’audience: “Guardate che le so, le parole.” Possiamo capirlo, anche se così dicendo crea una certa distanza.
Insomma, l’energia c’è, a quintali. Sono stracarichi, la scaletta è più arrabbiata che mai e procede senza soluzione di continuità: si apre con “Punto G”, ed è subito delirio.
Ritorno agli anni Novanta in scaletta – eccolo, il ritorno al passato –: “Germi”, “Posso avere il tuo deserto”.
Il gran ritorno di “Rapace”, assente da tempo dalle esibizioni live: grande emozione e piacevolissima sorpresa.
Altro picco, “Varanasy Baby”. Per non parlare di “È solo febbre”, “Sulle labbra”, e la stupenda “Simbiosi”.
Insomma, una rispolverata a brani (ultimamente) poco suonati; tranne, per esempio, per un imprescindibile “Male di miele” e una dolorosa e lancinante esecuzione de “L’estate”.
Bis e ribis con “Strategie”, davvero magistrale, nervosa e precisa; “Bungee Jumping” e “Il sangue di Giuda”; e per chiudere, “Sui giovani d’oggi ci scatarro su”: reazione al pubblico indisciplinato, o semplice (?) spirito di contraddizione rock’n’roll?
Insomma, dare un giudizio univoco su questo concerto non sembra affatto facile. L’emozione e la grinta – sempre a braccetto nei lavori della band –, erano in una sorta di equilibrio precario. Eppure, Manuel & co. sono riusciti ancora a stupirmi.
Chiara Macchiarulo
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