Il Sensei, i mangiapreti, il rubacuori
[IL_7 SU…]
Quando l’asfalto comincia a bollire, si sa che alcune menti frizzano, e infatti mi sembra di ricordare che fosse d’estate che un mio vecchio conoscente, un po’ gaudente, un po’ guascone e un po’ ciondolante, ma capace di improvvisi irrigidimenti a scatti per autoincitarsi, aveva preso a dire: “Sensei!”, ovvero, in giapponese, “Maestro”, di quel tipo che è anche maestro di vita, e spesso maestro di arti marziali.
Il termine ha però anche un’accezione negativa, ed è così che lo usava prevalentemente il mio amico, per fare del sarcasmo su persone o personaggi del quartiere che si inebriano delle esagerate adulazioni e si sentono carismatici quando invece sono soprattutto megalomani perché godono a farsi chiamare così quando magari a giocare a pallone sono negati! “Sensei!” era diventato un tormentone, accompagnato da una gestualità che sembra-va significare: “Sì, credici!” A qualcuno avrebbe potuto venire in mente di chiamare un gruppo musicale con quel nome, ma il cielo volle che in quel punto del quartiere, nella prima metà degli anni ‘90 non passassero musicisti. Invece pare che i Sion-Koo abbiano compiuto un’operazione simile: darsi come nome un’espres-sione pseudo-giapponese che abbia il valore fonetico di un tormentone da coatti bizzarri che cercano di arruffare il pomeriggio. In effetti il gruppo lascia tutti liberi sull’interpretazione del nome ed invita a chiedergli quella esatta di persona dopo i concerti, anche dopo aver finito di insultarli, al limite. Questo perché loro non hanno paura di niente, tanto meno di mixare le loro influenze, rendendo il risultato qualcosa di poco definibile se non con l’etichetta generica di rock alternative, che però non rende giustizia ad una band che dal 2006, anno della fondazione, è già passata attraverso diverse fasi e manipolazioni della line-up. “Nessuna cosa”, la title-track del loro primo EP, ha un’intro avvelenata, che sembra murata viva in un antro percussivo, ma che poi filtra attraverso le crepe con sbrindellate di chitarra metallica sopra a masticamenti di un basso buio; dopo una manciata di accordi a salire, il ritmo ingrana per poi scarnificarsi ospitando una voce grifagna che rimescola i buchi e le mancanze esistenziali con una severità teatrale amplificata dall’effetto eco, eppure ancora forse acerba sulle tonalità basse. Il dettaglio però resta subordianato rispetto alla veemenza con cui sensazioni annodate vengono manifestate senza curarsi del trascorrere delle ore notturne; il recitato ci rende partecipi di un tormento cui l’insorgere del mattino provoca solo il formicolìo di una distorsione chitarristica spettrale, mentre la sezione ritmica gorgoglia come il magma dentro una testa a forma di pentola a pres-sione. Quando giunge il sonno, “…dopo un ultimo pensiero che mi lascia andare piano ad un sorriso amaro, spero che in un sogno… lo troverò!” La pausa sembra portare una quiete, ma invece è solo un temporaneo ristagno, la schitarrata vibrante apre, ed il brano si protende in una coda strumentale, in cui la voce lancia ill grido: “Il fuocoooo!”, l’elemento che pare non molli lo spirito dell’insonne, sospeso sul rogo dei suoi fantasmi. “Le parole del sonno” resta su temi notturni, ma qui l’elemento onirico si declina in un mood più ipnotico, grazie all’arpeggio elettrico prensile e insistito sopra alla linea assorta di basso, su cui la voce, con toni austeri da santone, culla il bambino dormiente. Il saliscendi recitato sul testo dalla metrica a tratti un po’ forzata risente anche qui talvolta della mancanza di una personalità più plastica sui registri più smorzati, ma è qualcosa che verrà col tempo, immaginiamo; e intanto il piccolo, anche in virtù di rifiniture aggraziate e fragili, viene ammonito circa i pericoli dell’età adulta, tra cui le illusioni dal doppio volto ed i falsi profeti. Qui la chitarra si inarca in una serie di piccoli gorghi, da cui trae la spinta per un prosieguo della ninna-nanna sermone che si interroga sul senso di questo parlarsi addosso: i possibili tradimenti della vita, la perdita di con-tatto dal bambino che resta sepolto nel profondo, le ambizioni che sfumano. Queste anticipazioni saranno gradite al fantolino, o quello se ne frega perché dorme? “Benvenutio alla realtà, che è sempre la stessa, e senza volere perderai la cognizione del tempo”. Parte l’assolo disilluso e paranoide mentre il bambino cresce apatico, pronto a lasciare la casa paterna prima ancora di togliersi il bavaglino. La sezione strumentale, sghemba e cadente, si fa allucinata, col drumming sincopato galoppante, quando la chitarra solista assume una tonalità acuta e lancinante e sottolinea la fissità dello sguardo torvo del padre sul mondo e di quel mon-do ingrato sulla culla. La ripresa del ritmo si accompagna alla richiesta che si accenda un po’ di luce, ma il piccolo, apparentemente chiuso nel suo mondo incosciente, non ha ascoltato il padre chiuso nel suo esi-stenzialismo catacombale. La chiusura è la fine della ninna-nanna, come un glissando sullo sfogo acre che ha contenuto. “Market” si apre coi suoni ambientali di un registratore di cassa che vidima i prodotti, poi un giro di basso stimolante ci slancia in un blues impregnato di una quotidianità che tocca accettare oltre le per-plessità, con la voce che stropiccia appunti disadorni come fossero la lista della spesa; l’andamento indo-lente però inquadra un evento inaspettato che rivela la disperazione soggiacente: scoppia un incendio e qualcuno scappa e dà ordine di chiudere le porte. Il cantore con l’indifferenza di chi è abituato a vedere l’apocalisse anche in un prato di margherite, continua a tratteggiare flashes sulla catastrofe, seguita non più dalla chitarra blues, ma da un segmento soft grunge dell’arrangiamento; quando ormai le persone inermi bruciano con le mani schiacciate sul vetro, scatta l’assolo stile seventies, interrotto da un bridge di basso e batteria sordi, e poi ricaricato da una breve impennata a cui si riaggancia anche la voce per raccontare l’epil-ogo, che nel tumulto non riusciamo a cogliere, ma non ci è difficile immaginare che l’incendio fosse doloso, appiccato dal direttore del supermarket che non vedeva l’ora di andarsene in vacanza a curare il suo esau-rimento nervoso! Il gruppo è approdato alle finali del concorso Suoni Live, tenutosi al Jailbreak nel 2010, e pare che liberandosi dalle preoccupazioni sull’esito della prova, i quattro abbiano sfoderato una prestazione che restava robusta al di là del responso della giuria, e forse anche grazie alla loro cura dell’aspetto scenico!
Gli Anticlerical non vanno immaginati proprio come mangiapreti in senso fisico, magari con l’espressione e la posizione di Crono nel noto dipinto di Goya “Saturno che divora i suoi figli”, perché sicuramente non han-no neanche la voglia di sporcarsi le mani, però sicuramente sono irriducibili nel conservare la propria opi-nione anche dopo aver ascoltato democraticamente quella di un prete pedofilo rimbambito. E vedi un po’!.. Quando invece, da parte della Chiesa si rivendica il diritto alla parola e un dovere morale nella guida del cristiano su questioni etiche, il gruppo, sempre per non dar l’idea di essere proprio degli anticristi a cavallo, non affermano che la realtà che stiamo vivendo è il vero inferno, ma si limitano a paragonarla ad un “Limbo”, una ballad più fatalista che rassegnata, in cui l’arpeggio elettrico crudo sembra un riposo dagli scazzi con-catenati, e la voce si dedica a definire “Il limbo delle mezze verità, concetto pieno di necessità”; “tra logica e coerenza” si misurano i passi e ci si accorge che sono quelli che conducono a lei, “proiezione isterica di ru-more e melodia, dissonanza atonica, stai vent’anni avanti a me”; a parte quest’ultima notazione, non si starà parlando della Musica, che si snoda e ci doppia in loop in ritorni di fiamma a distanza di decenni? “Sei la misura che vorrei per distinguere gli dèi…”, e infatti quando ci si è dentro, è noioso ricordarci che c’è dell’ altro, ad impostare gli orizzonti materiali. Gli Anticlerical però reagiscono bene impostando in maniera giusta-mente tesa e diretta un protocollo sonoro che è quello figlio del post-punk ispido e asciugato, fondamen-talmente esondato nell’indie, ma coinvolto in un programma di connubio tra ricerca, irruenza umorale e melodia, e che prende a modello i Pixies, di cui originariamente gli Anticlerical Meister Project eseguivano le cover, ma anche gli Husker Du (di cui è nota l’inclinazione verso un progressive in senso lato), per finire con gli Afterhours e Paolo Benvegnù, ma sfrangiando la personalità con tutte le dovute sfumature, per poter consapevolmente e a buon diritto affondare il colpo critico non solo sugli “stupri culturali” perseguiti dal Cri-stianesimo, ma anche su quel virus parassita che è la civiltà occidentale. Il sound, nato spontaneamente, si è via via affinato con l’inserimento dei nuovi componenti, fino a dare un senso pieno all’impasto chitarristico che cresce e si piega, partecipe di un’umanità residuale che dà “un senso a questa squallida città” (“Limbo”). “Modigliani” sulla base profonda di basso appoggia scampanellanti cristallizzazioni, batter d’occhio inquieti sullo sfondo d’un senso d’urgenza maniacale. Il corpo del brano si ispessisce, si fa convulso, mentre la voce, espressivamente matura, impersona il travaglio di una ispirazione che nasconde qualcosa di più, ed il bridge, in cui il ghirigoro solistico si fa iterativo nella bolla istoriata dal dramma, è abitato da una linea vocale quantomai teatrale eppure non distante dall’ascoltatore, avvinto dalla struttura e dai riverberi sonici apparen-temente istintivi ma al contempo sapientemente orchestrati, con un ottimo portato emozionale. Anche “Conti-nuamentore” si apre con un fitto dialogo tra basso e sgocciolamento ipnotico di chitarrismi vitrei, ma presto il brano prende una piega strumentale indie cantilenante vagamente sguaiata per testimoniare il distacco, guidato da una chitarra solista sbrigliata qui un po’ anni ‘70, da lui: “il lugubre mentore insinua, traduce e continua”; voce incalzante e momenti molleggiati su un basso protagonista, e poi di nuovo la chitarra solista che campeggia, ed il finale corale e ruvido in cui ci sembra che il vocalist cambi, e la resa però non è più la stessa, si perde un po’ d’eleganza nella modalità rabbiosa e meno claustrale. Ma sicuramente il quintetto, che non concepisce le indicazioni di voto date dal Vaticano ai parlamentari cattolici, non accetterà sermoni neanche da noi, pur laici e disallineati.
Parlando di Statale 66, dobbiamo, perbacco, evitare una buona volta di sentirci così disperatamente italiani nonostante Berlusconi e non pensare quindi che ci sia di mezzo la strada che unisce Firenze a Pistoia e si spinge anche oltre; infatti questa passa attraverso paesotti come Carmignano, Borghetto, Pontepetri, e rasenta persino Mammiano!, mentre il percorso artistico dei Statale 66 attraversa regioni feconde della storia della musica collegando Elvis, Chuck Berry e Buddy Holly, mettendoli in collegamento con i Beach Boys ed i Beatles e connettendoli con l’influenza classica di Beethoven e Debussy. E bisogna aggiungere che sul palco non piazzano una biglietteria automatica di quelle che stanno ai caselli autostradali, ma presentano un front-man come Alessandro Peozzi, anima del gruppo, cantante e chitarrista, arrangiatore e maggior compo-sitore tra i quattro componenti. Con questi aiutini sarete arrivati ad intuire che l’orientamento di questa formazione è beat e psichedelica, ma va specificato che non si portano dietro un impiastrante blob di no-stalgia (anche se alcuni di voi l’avrebbero desiderato; tranquilli, non è patologico!) perché sono piuttosto una rock band di oggi che non ha rotto i ponti col passato ma anzi ne ha gettati di nuovi, col pubblico, in tutti i palchi conquistati con sudate esibizioni fino a notte fonda, e con diversi, quasi impensabili universi dell’im-maginario, quale quello della scrittura del grande Kafka, alla cui messa in scena teatrale de “Il castello” han-no saputo offrire una colonna sonora dal vivo (poi pubblicata su CD) che ora il pubblico di quelle serate non saprà facilmente sostituire, tale è stata la forza del loro adattamento empatico allo spirito dello scrittore pra-ghese e all’allestimento scenico di Giorgio Barberio Corsetti. E non finiscono qua i loro atout: il gruppo rap-presenta il fiore all’occhiello della etichetta discografica G&M Recorfonic (nata infatti appositamente per produrre gli Statale 66) di Claudio “Greg” Gregori (di Lillo e Greg) e Luca Majnardi (trombettista dei “Blues Willies”). Lo stile interpretativo, l’aspetto scenico e le composizioni ripropongono in chiave opportunamente aggiornata il mood degli artisti inglesi ed italiani che si esibivano tra fine ‘60’s e inizio ‘70’s, e spesso tra i pezzi originali vengono riproposti alcuni beat e rock’n’roll, rivisitati attraverso l’influenza dei grandi compo-sitori italiani per il cinema, come i maestri Nino Rota ed Ennio Morricone. “Sogno di pioggia”, con il video a-pero da una grafica multicolore psichedelica in stile Beatles e poi articolato su foto di scena dei componenti del gruppo vestiti come se avessero scambiato la regina viarum, l’Appia Antica, la location, per Abbey Road, è un pezzo retto da un serafico arpeggio decò acustico, utilizzato come letto ritmico su cui si stendono ac-cordi slide sognanti e percussioni morbide. Si aggiunge il tamburello ed il controcanto della corista, apparato quantomai convincente per suggerire di prendersela comoda e non affannarsi, perché con un pizzico di filosofia da “flower power” forse c’è ancora una possibilità che il mondo ci venga incontro. “Minigonna blu” è invece il tipico pezzo beat, con un avvio lento in crescendo per scelta di cadenza, ma presto timbrato con vivacità dall’epiteto portante, emozione sospesa tra spensieratezza e tenue simbolismo sognante: sarà un trip dell’”estate dell’amore” vissuto con le lenti colorate azzurre, o la signorina emancipata ma di buona fami-glia portava la minigonna blues come habitus mentale? La voce interpreta tutte le pieghe dell’epoca senza disdegnare passaggi in falsetto, e assecondato da un ensemble che vira lievemente dall’up tempo alla ma-zurka ricadendo simpaticamente, a parte l’assolo disinvoltamente swingato di chitarra, nel versante imitativo italiano della ricca ondata britannica. “Mr Hyde” è invece un blues fast e malandrino d’altri tempi, sostenuto e con coretti di circostanza e con profluvio di stop&go, proposto col manierato cinismo minaccioso d’un ruba-cuori che ha perso la pazienza con la bella tira-e-molla, tanto da avvisarla che potrebbe finire con qualcuno di peggio; la contestazione underground è tenuta ancora fuori, qui il motore è ancora l’emancipazione ses-suale personale, che si attua facendo il rocker per effetto del gridolino d’ordinanza alla Chuck Berry. “Notte a metà” ha le strofe sospese in un mood da balera, col basso profondo, ma il ritornello provvisto di note lunghe apre al Merseybeat, per poi tornare al jazz da night, in un mix vintage agrodolce. “Fuga”, per concludere, su un ritmo marziale ma leggero, giusto un po’ beffardo, ammicca a strutture classiche ma con la leggerezza di un “capriccio”; si tratta solo di uno spunto condotto da una chitarra sagomata a spigoli ritmici doppiata dal basso, che allude alla fuga dei mods e dei beat, superati dal blues rock più tosto, verso territori più ibridi e avanzati come la psichedelìa ed il progressive. Proposta garbata, quella degli Statale 66, che rivitalizza la malinconia restituendo con enorme passione corpo a sonorità sempre vagheggiate nella memoria.
il7 – Marco Settembre
Anticlerical, marco Settembre, Marco Settembre- Il_7, martelive, martemagazine, musica, Rubrica Il_7 su, Sion-Koo, Soon Koo, Statale 66