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Pro Patria: Ascanio Celestini

MILANO- Ascanio Celestini sta portando in giro per l’Italia il suo spettacolo Pro Patria che parla di Risorgimento, ladri di mele, esperienze personali di vita, Wittenstein, e, in modo più esteso, di pena, anarchismo, stato. Uno spettacolo denso e difficile, non solo perché sarebbe il caso che chi si reca a teatro sappia qualcosa di Rinascimento, magari qualcosa che vada oltre la Giovine Italia.

E’ necessario per seguire il ragionamento che fa Celestini: lui è il ladro di mele in un Paese che, se gli eroi del Risorgimento avessero ottenuto ciò che si prefiggevano, e che crearono brevemente nella Repubblica Roma, non avrebbe le prigioni. Il sogno di Mazzini non si è mai realizzato, e forse non dovremmo dedicargli piazze e scuole.

Il sogno dei ragazzi del Risorgimento, da Pisacane ai fratelli Bandiera, Andrea Aguyar, Colomba Antonietti, Luigi Calamatta, Goffredo Mameli, Luciano Manara, era uno stato diverso da questo, senza pena di morte, con suffragio universale, con libertà di culto, e il loro sogno è stato disatteso. Alla fine, se questi ragazzi (erano tutti ventenni) ora sono eroi e non più terroristi, è perché il potere, i reali, si sono impossessati dalla loro battaglia e l’hanno cambiata nei contenuti, avvalendosi anche della complicità di Garibaldi che, essendo ignorante, si è prestato al loro gioco. Dato che l’Italia non è cambiata, che le Brigate Rosse negli anni ’70 non l’hanno cambiata, un ladro di mele, che le ruba perché ha fame, perché lo Stato lo ha affamato, finisce in carcere, con i senza permesso di soggiorno e i tossici.
Celestini, il ladro di mele, che parla ancora una volta di suo padre Nino e della sua infanzia proletaria, rifiuta il sistema carcerario, ma poi deve soccombere, perché ancora non è il momento per gli anarchici e lo Stato vince. Esso manda in carcere e cerca i colpevoli per non vedere, affrontare e risolvere i problemi sociali. Alla Giustizia non importa perché hai rubato la mela. L’hai rubata, e che sia una, dieci, cento mele, in carcere finisci.
E’ il je accuse di Celestini, che colpisce l’ignorante Garibaldi, Mazzini unico a diventar vecchio in mezzo a un mondo di ragazzi morti, sempre in fuga (un fantasma si aggira per l’Europa.. Mazzini!!), i ricchi, chi fa entrare i poveri dalla porta di servizio, il sistema, che abbruttisce anche i secondini (che conservano però la loro dignità). Ma la fantasia, del ladro di mele che parla con Mazzini o del negro africano che scappa della cella che è sua per usu capione, non sarà mai vinta.

Si tratta di un’opera difficile, non nascondiamolo. Celestini forse sta facendo una svolta nella sua poetica. Lo abbiamo conosciuto come colui il quale raccontava piccole storie relative a tematiche grandi e facenti parte del nostro passato recente, come in Pecora Nera sul manicomio, Scemo di Guerra sulla Liberazione e Fabrica sul Fascismo. Il pubblico veniva catturato dalla sua capacità affabulatoria, si faceva prendere per mano e mentre lui parlava velocissimo nella sua lingua un po’ romana un po’ italiana e un po’ inventata, facendo pochissimi gesti, raramente alzando lo sguardo sulla platea, lo seguiva, come sulle montagne russe, e rideva e piangeva velocissimamente. Poi ci sono le storie minori, gli spettacoli di musica, canzoni e aneddoti, come “Vita Morte e Miracoli”, “Fila Indiana”, “Appunti per un Film sulla Lotta di Classe”. Opere quasi embrionali, frammentarie, affascinanti flash. Ma spettacoli minori.
Pro Patria cosa è? Celestini va indietro di cent’anni in più di quanto fa di solito. Narra una storia che non ha toccato con mano, e che deve far rivivere attraverso i filtri. Insegna nozioni, come fa Marco Paolini – mentre sino ad oggi, raccontando per lo più del Fascismo e della Seconda Guerra Mondiale, poteva fidarsi delle nostre esperienze personali e di ciò che noi, come spettatori, avevamo con noi.
Celestini ha abbandonato il completo nero e la camicia bianca, accenna un abito da scena. Questo spettacolo è bellissimo. Forse va dilatato un po’, perché Celestini ce ne butta addosso di cose in meno di due ore, e forse sarebbe meglio allungarlo in durata e spiegare maggiormente chi erano i ragazzi di cui parla, quelli morti nel Risorgimento e quelli morti in carcere in questi anni.

Il linguaggio è mutato, come già stava accadendo con le opere minori: è meno arcaico ed antiquato, più moderno e anche più aggressivo. La parlata velocissima. I rimandi arrivano anche dal contemporaneo. Forse Celestini diventerà più difficile e meno cantastorie, ma ora, a non ancora quarant’anni, forse Ascanio Celestini sta per diventare lo sceneggiatore e l’attore decisivo dei prossimi trent’anni in Italia.

Silvia Tozzi

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