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Dropkick Murphys: Non chiamatelo concerto

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[MUSICA]

5CIAMPINO- Non si può parlare di musica in queste occasioni. Non si può parlare di musica quando le orecchie sono impegnate a sentire cori inneggianti il duce, quando gli occhi non guardano il palco ma dietro, davanti, di lato per stare in guardia ed evitare che quattro vigliacchi se la prendano con una persona sola.

Erano una cinquantina quelli che il 6 giugno scorso all’Orion hanno rovinato un concerto che molti aspettavano da tempo, la prima delle due date italiane dei Dropkick Murphys.
Già durante l’esibizione del gruppo spalla si nota che l’aria non è delle migliori, omaccioni e ragazzini di Casa Pound sono pronti a scoppiare, lo si vede da come ringhiano a chi gli passa accanto e per caso li urta o li sfiora soltanto (nel mio caso era l’omaccione, e mi è passata la vita davanti). Lo sapevano anche i proprietari del locale che erano mine vaganti, per questo, appena hanno visto che arrivando dieci alla volta erano diventati una cinquantina, avevano chiamato preventivamente le forze dell’ordine che, fuori, aspettavano di intervenire a fatto compiuto.
Come preavviso dell’imminente arrivo sul palco dei sette di Boston si sente “The Foggy Dew” di Sinead O’Connor & The Chieftains. Quando i Dropkick Murphys salgono sul palco non cominciano certo con moderazione: partono in quinta con “The State of Massachussets”, testa di diamante di The Meanest of Times. Il coro del pubblico sovrasta quasi gli amplificatori, sul palco già si gronda dopo un paio di minuti. E non si fa certo attendere l’irish folk tradizionale per le masse: ad accompagnare ”Captain Kelly’s Kitchen”, la vecchia “Courtin in the Kitchen”, sul palco arrivano le ballerine dell’Accademia di danze irlandesi Gens d’Ys e tre simpatiche violiniste, tanto per non farsi mancare niente. Dal 1999 riesumano “The Gang’s All Here”, dal primo album con Al Barr alla voce, e fino a “Sunshine Highway” sembra andare tutto liscio: energia pura da sotto al palco, amplificata dall’effervescenza dei musicisti, Tim Brennan non si dà un attimo di pace, alterna in continuazione chitarra e fisarmonica, Jeff Darosa armato del fedele banjo gira come una trottola e saltella da una parte all’altra del palco, mentre il buon Scruffy Wallace rimane placidamente impassibile a tutto. Un flusso ininterrotto che termina quando Barr prende parola per introdurre “Bastards on Parade”, due minuti dopo il pezzo si interrompe bruscamente, e parte il primo avviso del musicista che chiama fascist assole quelli che avevano cominciato ad attaccare altri ragazzi in mezzo alla folla “Non mi interessa in cosa credete, non posso cambiare le vostre idee, non è il mio lavoro. Io sono qui per suonare musica, lasciate la vostra politica fuori. Sono stronzate!”. Tutti gridano ai militanti di Casa Pound (è indiscutibile dato la bandiera che sventolano) di andare fuori, ma evidentemente questo non fa che irritarli ancora di più. “Ora continuiamo lo spettacolo e ci divertiamo. Niente più bandiere, niente risse. Abbiate rispetto”, incita Al Barr, poi Ken Casey prova a riportare tutti al mood dello show. Erano passati solo 15 minuti dall’inizio del concerto.

Per quel che ci è concesso di sentire, i DM focalizzano il tiro soprattutto su The Warrior’s Code (2005), e 18sull’ultimo disco Going Out in Style (2011), il resto è un’enorme best of, quello che ci si aspetta da un gruppo con 15 anni di celtic punk sul groppone, 15 anni portati con stile indiscusso. Scorrono velocemente “Going Out in Style”, “Which Side are you On” e, dopo una parentesi per respirare con “Forever” cantata da tutti come fosse un sacro inno, si ritorna a battere pesante con la rilettura del classico contenuto nell’ultimo disco, “The Irish Rover”, poi “Fields of Athenry” e la nuova “Sunday Hardcore Matinee”. Qui si interrompe tutto, per la seconda volta dopo soli 40 minuti di concerto. Il flemmatico Ken Casey, credo uno dei frontman più bonaccioni della storia, si incavola come una belva, sbatte la chitarra a terra e i compagni di palco lo trattengono mentre preso da uno scatto d’ira fa per scendere giù dal palco ed intervenire contro i violenti. Discutono un po’ sul da farsi e poi escono di scena: giù qualcuno, dopo l’ennesimo scontro, ha rotto (o ha spruzzato pesantemente) una bomboletta di spray urticante.
Passa mezz’ora mentre fuori ragazzi sanguinanti, con nasi rotti e contusioni vanno via in ambulanza e le forze dell’ordine fanno i loro fermi. Quando l’aria comincia ad essere respirabile, alcuni ragazzi fuori dal camerino chiamano la band e chiedono scusa “Sorry Murphys!”, gridano in coro. Anche la sicurezza del locale è confusa, in un primo momento fa uscire tutti e annuncia la chiusura del locale, poi arriva il contrordine. Il concerto ricomincia per una ventina di minuti, il pubblico è meno della metà e quasi sembra che non sia successo niente. Si ricomincia unplugged con un pubblico che sembra essere un altro, ci si abbraccia e si canta felici “Take ‘Em Down”, “The Warrior’s Code”, “The Wild Rover”, c’è persino “Citizen CIA” in una inedita versione placida e pacifica e “Boys on the Docks”. Scaletta visibilmente stravolta e rinnovata rispetto a quella che era sul palco. In realtà sembra che vogliano togliersi il prima possibile dal pantano romano, nonostante le facce da piccoli Buddha che, non so come, sono riusciti a montarsi addosso mentre erano nel backstage. Ritornano elettrici per gli ultimi scalpiti con “Shipping up to Boston”, la versione originale di “Citizen CIA” e una cover degli AC/DC, “T.N.T.”, che tanto pe’ cantà l’accettiamo pure ma, da conservatrice, non si poteva proprio sentire.
Come non si possono sentire le giustificazioni di Casa Pound, sì, quell’associazione di promozione sociale.
Non chiamatelo concerto, è contro il suo stesso significato. Ma non chiamatela nemmeno rissa.
Chiamiamola finzione: quella dei musicisti, quella dei “militanti” e quella delle forze dell’ordine. Perché questa è l’Italia, oggi: nemmeno più la civiltà ci unisce.

Emiliana Pistillo
Foto di Davide Di Santo

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