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Sei Designer in cerca di eredi

MILANO- Anche quest’anno, come da cinquant’anni a questa parte, è andata in scena a Milano la Fiera del Mobile, fiera che negli ultimi anni è divenuta un vero e proprio evento, grazie alle tante iniziative collaterali organizzate nell’ambito del cosiddetto Fuori Salone.

Quest’anno poi ha visto anche il coinvolgimento del Teatro Piccolo che ha realizzato, su “committenza” degli addetti ai lavori (tra cui FederlegnoArredo), un monologo dedicato a sei architetti classe 1914-1920, padri del design italiano ossia Achille Castiglioni, Vico Magistretti, Vittoriano Viganò, Roberto Menghi, Ettore Sottsass e Marco Zanuso. Il difficile compito di “scrivere” lo spettacolo è stato affidato a due esperti: Manolo De Giorgi, esperto di storia del design e Laura Curino, esperta in biografie “imprenditoriali”. Curino, infatti, non è nuova a questo tipo di operazioni: basti pensare al recente L’uomo del Cane Nero, pièce dedicata alla controversa figura del fondatore ManiGrandiSenzaFine 5dell’ENI, Enrico Mattei o allo spettacolo dedicato ad Adriano Olivetti, imprenditore illuminato e altamente atipico, che, tra l’altro, chiamò a collaborare con la sua azienda anche alcuni designer, come lo stesso Sottsass. E in fondo anche Mani grandi, senza fine, lo spettacolo scritto da De Giorgi e Curino, è frutto della collaborazione tra il mondo imprenditoriale e quello culturale.

A portare in scena il monologo ci pensa la stessa Laura Curino, che salendo e scendendo da un’impalcatura – metafora di quel cantiere aperto che fu l’Italia del secondo dopoguerra – racconta aneddoti sui designer scelti come protagonisti dello spettacolo. Racconto che viene intervallato da filmati d’epoca che raccontano di una Milano capace di rimboccarsi le maniche e ricostruire, trovando soluzioni innovative ai nuovi bisogni del Paese; soluzioni capaci di trasformare lo sguardo con cui si guardavano gli oggetti di tutti i giorni, arrivando addirittura a “sovvertirli”, a cambiare il modo di viverli, di crearli, di produrli, di offrirli al mondo (e al mercato). Insomma, si tratta di uno spettacolo che, per usare le parole di De Giorgi, “mette in scena la vicenda che sta dietro il successo del design italiano tra il 1945 e la fine degli anni Settanta e che si rivolge non solo agli addetti ai lavori ma al grande pubblico, affrontando un tema civile, un tema milanese e che in ultima analisi riguarda tutti”.
Riguarda tutti perché questo spettacolo mette in scena le origini del nostro futuro: il periodo analizzato, infatti, è sicuramente il momento storico in cui imprenditori e progettisti maturarono la loro cultura produttiva e progettuale in perfetta sincronia. Sincronia che a volte permise alle imprese di emergere nel panorama internazionale grazie alle proposte di veri e propri artisti della matita e che altre volte permise ad alcuni giovani talenti di scoprire la propria vocazione di designer grazie alle opportunità offerte dalle imprese. Una sincronia che in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo andrebbe riscoperta e sostenuta, visto che in essa risiede quel vantaggio competitivo che caratterizza la nostra produzione a più alto valore aggiunto: il made in Italy.

Attraverso i profili dei personaggi tratteggiati dalla Curino emerge proprio la loro volontà di creare oggetti diversi da quelli prodotti in serie dalla grande impresa con lo scopo, secondo Sottsass, “di migliorare la vita della gente con un più responsabile disegno dell’ambiente artificiale, degli oggetti e degli strumenti che lo invadono”. E tutto questo in un’epoca in cui il dibattito internazionale sul design si sviluppava attorno allo smantellamento dell’artigianato per far ManiGrandiSenzaFine 3strada al prodotto standardizzato. Insomma questi architetti riuscirono a fare entrare nella cultura del tempo l’idea che la bellezza fosse per tutti e meritasse un posto nella vita quotidiana di ognuno. Ed è proprio questo concetto che dovrebbe tornare in auge, perché è l’unico modo per garantire al nostro Sistema Paese di sopravvivere in un mercato globale ad altro tasso concorrenziale. Ostinarsi a competere con le culture produttive dei Paesi in via di sviluppo non solo è una battaglia persa in partenza, ma comporta l’inevitabile perdita d’identità del prodotto stesso. Se questo concetto rimarrà ben chiaro, allora l’Italia continuerà a realizzare prodotti di successo, in caso contrario la nostra tradizione manifatturiera sarà destinata all’estinzione, con inevitabili conseguenze occupazionali.
Venendo allo spettacolo, si può affermare che, indubbiamente, induce a fare alcune riflessioni non solo sul nostro (glorioso) passato ma anche sul nostro (incerto) futuro con l’unica pecca di mettere tanta, troppa carne al fuoco in un esiguo lasso di tempo: 90 minuti di narrazione per portare alla ribalta le gesta di sei personaggi del calibro di Castiglioni&co. sono davvero pochi, soprattutto per un pubblico di non addetti ai lavori, che ha più familiarità con i nomi di certe moderne archistar, che non con quelli dei designer che hanno profondamente contribuito alla formazione del nostro (invidiato) senso estetico.

Christian Auricchio

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