I gringos, le candele, il Kursaal
[IL_7 SU…]
Ci risiamo; inaspettata, ecco una ricaduta! Nel senso che di nuovo ci tocca assemblare a fiuto (quasi a casaccio) tre gruppi tra quelli che si esibiscono al ConteStaccio nell’ambito del nostro concorso, con la piena consapevolezza che non possiamo indovinare esattamente tre che hanno suonato la stessa sera, in mancanza di un database preciso.
Ma è anche vero che il rock raramente si fonda sul rigore o fa ricorso alla razionalità, perciò ci lasceremo guidare dalla passione pura e dall’esile filo dei nostri deliri, se per voi va bene.
Johnny on the rise non teme di denunciare la sua nascita come il frutto dell’incontro tra Eva e il serpente, all’insaputa di Adamo (come al solito); questa progenitura bastarda si è poi sviluppata spargendo le forme del suo male sulla Terra, come un araldo umano, primordiale e distruttivo che debba rendere noto tra gli uomini il volere di quel caprone di Satana. Sul Myspace viene spiegato che la Bibbia non ne parla perché chi l’ha scritta ha avuto paura di rappresaglie, ma invece così, attraverso tutta la serie di film sull’Anticristo, siamo arrivati al punto che lo ritroviamo a Roma a suonare rock-blues a due passi dal Pontefice. Secondo un’altra leggenda, invece, i due leader, entrambi chitarristi-cantanti, si sono conosciuti durante un concerto di uno di loro ad un Open Mic Session at the Fiddler’s Elbow Irish Pub, quando l’altro si è alzato, si è impos-sessato di un microfono e si è messo a fare i controcanti “rovinando la canzone”. Orbene, io dico che ci va bene anche che “rovinino” i brani piuttosto che rovinino la vita sul pianeta facendo propaganda per Lucifero, a cui in Italia già diamo abbastanza spazio, in politica. “Into the light”, la title track del loro nuovo album, è una ballata chiaroscurale da americano afflitto in giro per l’Europa, con l’eco spettrale di una chitarra slide a distorcere le impressioni affidate ad un diario con la copertina di pelle, mentre l’arpeggio e l’accenno di flauto screpola le strofe crepuscolari cantate con inflessione introversa; poi prende il via un ritmo che si riscuote stimolando l’anelito di libertà di un sax pulito a cui si accoda la voce, ora aperta nelle tonalità rivolte a nuove prospettive, oltre che alle problematicità di un presente da risvegliare, come si deduce dai ciclici ripiegamenti della linea melodica vocale. L’approccio è acustico, ma la presenza del basso e – come detto – del sax, con-feriscono un sapore rotondo ad una composizione che si evolve dal confidenziale alla recriminazione dyla-niana e ritorno, col finale mesto e nebbioso. “John de Sadre”, invece, appartiene alla release precedente, “Down south” e – complice il passaporto americano di Nicholas Youmans, uno dei due leaders e fondatori, restituisce in un crudo e cupo ritratto fotografico al nitrato d’argento smangiucchiato, un’immagine dell’epoca del tramonto del West, con una combriccola di gringos che confabula fuori da un saloon scambiandosi no-tizie su un bounty killer dall’alone mitico che va in giro nella contea facendo domande su alcuni di loro; la voce qui è da narratore fuori campo di uno spaghetti western un po’ visionario, ricostruito coi frammenti dei racconti di un guidatore di carrozze e dei ricordi di un vecchio indiano rinnegato che quando non lavora al banco dei pegni si rimbambisce col peyote. L’armonica a bocca è una sottolineatura sordida che garantisce il viraggio in seppia, mentre la voce sembra borbottare che non vuole fare la fine di “Dead man” di Jim Jar-mush. “Pretty baby blues” è il brano d’apertura del primo album, e risulta evidentemente essere un gustoso omaggio all’influenza del blues su ciò che, più tardi nella storia della musica, sarebbe diventato l’honky-tonk: uno scalcagnato lamento disincantato probabilmente sull’assenza di una donna (adatta) e sulla presenza di una donna (dis)adattata ma attraente in modo irritante. L’armonica a bocca impedisce che l’indolenza da uomo del Sud venga meno, e l’eccitazione sessuale a singhiozzo è tenuta a freno dall’armonica che governa il ritmo masticando i giorni e le ore dedicate alle pulizie, nel ranch cadente. Le influenze della band del resto sono il folk, accanto al blues e al rock classico, ed i loro modelli vanno da Muddy Waters a John Lee Hooker, da Bob Dylan a Bruce Springsteen, da Neil Young a Stevie Ray Vaughan passando per Jimi Hendrix e i The Doors; come dire che ’ste radici penetrano nel suolo per chilometri! Salvatore Benintende, l’altra polarità del duo, quella italiana, pensando che bere vino e viaggiare da Ostia alla costa abruzzese sia come fare il coast to coast col whisky nella borraccia, ben si adatta a creare quest’enclave yankee nella capitale italiana, ma ogni tanto forse ottiene di tornare almeno ai tempi odierni, con l’ispirazione, e allora ecco “Ode to Love”, in cui lo schitarrìo andante della chitarra è interfacciato da spigolature al mandolino che sostengono insieme l’inno assorto all’Amore, intonato a bocce ferme, trattenendo la vera passione sull’orlo dei pensieri e la lacrima di rimpianto sul limitare della malinconia forzatamente fredda. Proposta un po’ d’altri termini e d’altre latitudini, quella dei Johnny on the rise, che però proprio per quest’anima folk, con il secondo album non dubitiamo che, come l’acqua cheta (di qualche ruscello del Missouri), faranno crollare anche le resistenze di molti di quei cuori orientati all’onnipresente indie rock.
I Rhò non intendono spiegare a noi estranei se il loro nome è dovuto al comune milanese o al diminutivo di una mia collega qui a Marte Magazine, e questo forse proprio per non compromettere la signorina svelando l’ubicazione di qualche suo rifugio segreto in Lombardia, ma il nome del gruppo, così come quello della cittadina potrebbe anche derivare da una fusione tra il latino rhaudum (ruota) e il celtico rot (rosso), sug-gerendo una ruota rossa con un rimando criptico, magari, al detto ancora latino: “la ruota potente schiaccia tutto ciò che è opposto”. “Black black black”, il pezzo in evidenza sul loro Myspace, ha un ritmo ossessivo, e dei suoni bassi da oboe filtrato dentro ad un sdilos di metallo, che conducono infine, attraverso incidenti aggiuntivi sempre ritmici, a sequenze elettroniche ipnotiche inmperniate sulla ricerca di un effetto eco, e quando un contrappunto si staglia sull’impasto denso e crescente, le percussioni implementano un poderoso senso di avanzamento inarrestabile che assume i connotati quasi di una celebrazione di una maniacalità che crea forme ritorte di poesia scavando nel ritmo delle sovrapposizioni ritmiche di suoni derivati, ci pare, dal rimbalzo telepatico di una colata di acrilico nero su un’ammasso di strumenti d’epoca. “Il mio saluto” prende l’avvio da lontani colpi di cannone, che diventano il sostegno ritmico per il sinistro rombo prolungato, una stringa che si fa tappeto sonoro per marce in ginocchio; il cantato tremulo, sussurrato, che annuncia pro-ponimenti di una rinascita che sgusci via dai grovigli ripartendo da tracce sparse, costruendosi sentieri che sembrano già smarriti, e invece si fa largo un’apertura, nel cielo che crolla “per metà”, e nella superficie linda lustrata dai violini l’uomo afferra la sua Verità “oltre la tua meschinità”, pervenendo ad un lunare approdo in cui i ricordi saranno abbattuti e le orde di forme nerastre si ripiegheranno sotto l’orizzonte, ed “il mio saluto arriverà” attraverso le connessioni distorte tra due prospettive che mai avrebbero dovuto venire a contatto, se non in un incubo. Ed il crescendo dell’onda del salvifico risveglio toglie il fiato, offrendo un riscatto dalla fosca metafisica multistrato in cui la comunicazione del cuore ed il respiro dell’anima sono impediti da rigidità soffocanti. “17” inizia con il dispigamento di una serenità ondulata, ricca di sensazioni pianistiche speri-mentali debitrici di loops dal karma eugenetico, ed il minimalismo pare riconducibile sia Terry Riley che alle Frippertronics, almeno finchè l’avanguardia contemporanea non permette al mood angelicato del suono più cristallino e rarefatto di introdursi a suggerire il rasserenarsi delle linee meditative. Poi un ritmo tutto tronico e ad impulsi rimbalzanti a frequenza alta s’aggiunge per proporre l’idea di una possibile risoluzione in progress e vivace delle problematiche a cui ci si era abituati nella saggia accettazione. Questa dimensione conferisce un beat più commercial, ma solo a tratti, ad un’attitudine generale votata all’incommensurabilità delle proiezioni limbiche. Resta quindi congelata la tentazione di un raffronto con le ritmiche da scorribanda cosmica del kraut rock dei Tangerine Dream maturi, perché la pulsazione sembra più contemporanea, in un contrasto forse sottile tra il contesto sognante o ricurvo e l’andamento accennato da dj-ing ispirato. In “Overture”, il tremolìo di un basso segna i ferventi minuti d’attesa per qualche promenade, di cui le ricorrenti entrate orchestrali di violini simulati connotano il classicismo, mentre nel video un giovane in ombra, dal volto coperto da una mascherina di piume color acquamarina, resta pressoché immobile, in agguato con la sua carica di amore obliquo, forse en travestì. Tocchi di piano diventano una delicata tessitura piovana, stille di un mistero da dissipare alla luce di candele, come in una scena frutto d’un incrocio tra gli interni sette-centeschi di Barry Lyndon e la solenne perversione dei festini di Eyes Wide Shut. “Notte sento” include un contrappunto di note pianistiche acute in una frase in progressione che sembra un contrappunto su cui cam-panelline definiscono l’incanto che cresce, diremmo, “nottetempo”, quando di “notte sento”; poi invece il brano strumentale trova un ritmo tratteggiato da una fisarmonica di un sogno tzigano evoluto in ambienti di cristallo, e sotto di essi la sincope batteristica avanza scazonte mentre invece il piano produce una progres-sione più protagonista che si sviluppa toccante nel vuoto delle ingombranti dispersioni diurne, fino alla ripresa finale con un diverso piano che interagisce con le campanelle in un reticolo di riflessi che avvolge la pace e la profondità degli interessi. Quelli di Rhò sono elettroacustici e con una verve amniotica e spe-rimentale, ammalia l’uditorio vestendo di suoni sintetici, lucidi e deep il suo nascosto fulcro folk.
I Russian Roulette, vivendo in tempo di pace apparente, hanno potuto evitare di cadere prigionieri dei vietcong ed essere costretti a giocare alla roulette russa, né sono rimasti tanto scioccati dai recenti scandali della Lega da pensare di partecipare a tornei del macabro gioco; piuttosto, dato che il trio si è composto il 17 Agosto del 2006, possiamo immaginare che i ragazzi di Ostia combattano la disperazione delle ore di punta sulla spiaggia di Roma ingannando la canicola opprimente pianificando la realizzazione di un repertorio rap-rock, una reazione molto decisa e incomparabilmente più vitale di quella messa in atto da Nick ne “Il caccia-tore” di Michael Cimino. Mr. Underverse/Alberto Polimeni è un rapper eclettico attivo dall’età di 14 anni, quindi è un veterano, la cui inclinazione naturale è stata ispessita da studi classici e filosofici; anche Dr. Venom/Enrico Biagioli può vantare una simile esperienza col suo strumento, la chitarra, ed è passato anche attraverso esperienze hard rock, mentre Pinguino/Danilo Filippino, il batterista, è il membro più anziano (di un anno!) e come gli altri, ha già avuto occasione di perfezionarsi, e non credo lo abbiano fatto sotto l’om-brellone al Kursaal. Questo ci induce a pensare 1) che il trio sia agguerrito, 2) che il fatto che non abbiano ancora un contratto sia un dettaglio attribuibile alla stessa casualità che decide la roulette russa, e 3) che loro, orgogliosamente, non abbiano bisogno di puntare la pistola alla testa di nessuno per ottenere l’atten-zione che meritano. Infatti “La fine del mondo” si diparte da una tastiera marcescente in chiave funky-apoca-littica a cui si aggancia la robusta chitarra ritmica ed il massiccio apporto ritmico della batteria, per poi pro-porci il testo avvelenato che si interroga sulla vera fine del mondo e ci fa notare come la verità sui politici e sui loro attacchi reciproci la apprendiamo dai comici e che “non si lavora per vivere, casomai il contrario”. Nel ritornello d’impatto viene presentata l’ancora di salvezza: il riferimento al proprio vero sé e al sogno di qual-cosa di meglio. La chitarra solista, penetrante, militante, formicola sottotraccia durante le strofe e poi scatta nell’assolo conclusivo, lancia in resta, a sottolineare, puntuta e arrembante, l’assalto al muro di gomma delle convenzioni allestito dal Potere. “Conseguenza di me stesso” è un altro pezzo in cui si decanta l’equilibrio tra cantato rap e struttura rock “anarcoide”: l’inizio è affidato alla fibrillazione di una tastiera che smania, poi è la sezione ritmica che macina mentre il vocalist espone il flusso delle sue considerazioni su quella forma di vita che ci è consentito vivere tra i “paletti messi con dei pretesti, dei freni imposti che non rispetti”, mentre la solo guitar svirgola le sue microdistorsioni ed il suo senso di allarme palesando il malessere più che stri-sciante: “Se non capisco sono io che non so se mi capisco o no”. Nella sezione conclusiva torna in gioco la tastiera con dei pattern sfiziosi e tesi alternati al ritmo puro e lasciando poi spazio, nell’imperversare delle spirali chitarristiche di fondo, al ritornello che tira le somme e non vuole più aggiungere nulla che non sia istinto: “Disposto a morire, gridando oh-oh oh-oh!” e la sfumatura è ancora con la rifinitura della molleggiata keyboard. “Quante volte” è invece un brano lento, una ballad costruita sul sapido arpeggio della sei corde, col corollario desolante del soffio del vento che si insinua tra i pensieri e la mestizia di chi ricapitola incredulo le vicende che lo hanno portato a sbattersi da solo nella tramontana contro il proprio furore: “Quante volte mi ritrovo a dire quante volte, quante volte raddrizzo situazioni nate storte… quante volte mi si sbattono in fac-cia le porte… quante volte ti sei scoperto fragile”. Troppe. Sarebbe il tempo di cambiare, e lo afferma, con un groppo in gola, anche la tastiera, che simula un tappeto di archi ad indicare la forza interiore repressa che cova sotto le ceneri, e che ti fa chiedere “Quanti giorni hai vissuto e quanti sei solo esistito? …Quante pro-messe di rimettersi in carreggiata, quante volte ti sei ritrovato sulla stessa strada?” Il discorso riguarda un po’ tutti anche quando il front man parla di “…assaporare la lacrima più amara perché sconosciuta a chi t’ama-va”, e allora quando canta “Sul serio, sul serio, quanti buchi nel braccio?”, emerge il senso di impegno so-ciale del pezzo, ed il nostro senso di solidarietà verso chi non vede altre vie d’uscita che quelle tossiche viene stimolato, ma anche se ci si potrebbe ribattere che noi in fondo non ne sappiamo niente, ci sentiamo personalmente di aggiungere, in stile rap: “Parlane di più, canta pure il tuo disagio, ma non cedere a conso-lazioni malsane a corto raggio!” Non lassciare che la tua vita sia una roulette russa, lasciati aiutare dai Rus-sian Roulette!
il7 – Marco Settembre
Johnny on the Rise, marco Settembre, Marco Settembre- Il_7, martelive, martemagazine, musica, Rhò, Rubrica Il_7 su, Russian Roulette