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Peter Gabriel I_ Car

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petergabriel-carNon è certo da quando è uscito in tutto il mondo il suo “New Blood” che Peter Gabriel può essere considerato un papa della musica contemporanea, ma in questo momento in cui si parla soprattutto della vena intimista che lo ha condotto a rivisitare in chiave orchestrale i suoi vecchi successi, può fare uno strano effetto ritornare su quegli album classici con cui ha costruito la sua carriera solistica.

Album e brani che egli stesso in alcuni momenti pare abbia considerato con imbarazzo, come quando il 3 luglio 2007, tornato a Roma e precisamente a Capannelle, in occasione del RomaRock Festival, per la tournée europea del “Warm Up Tour” eseguendo dei pezzi assenti da molto tempo dalle sue scalette ma selezionate direttamente dai fan tramite il suo sito internet, spiegò: “Vogliamo spazzare via la ruggine”. Nella vita si cambia, ma la maggior parte dei suoi fans di vecchia data, legati a lui da un affetto praticamente fraterno, non riescono ad accettare che l’animale da palcoscenico (sebbene riscattato dalla timidezza primeva) possa vagamente pensare di rinnegare parte di se stesso, ed in particolare quelle sue incarnazioni stilisticamente asciutte eppure così pregne di emotività allo stato puro e al contempo così intellettualmente stimolanti, anche sotto il profilo dell’impegno sociale, che lo resero una epitome del post-punk della prima ora, lui che aveva contribuito con i Genesis ad istituzionalizzare al massimo grado la ricchezza orchestrale del progressive sia musicalmente che con la ricerca testuale carica di riferimenti culturali, sia sotto il profilo della resa scenica, con le sue affascinanti travestimenti teatrali! Fu appunto dopo aver prodotto il concept ed i testi dello straordinario doppio album “The lamb lies down on Broadway” che maturò la 496 modernlove 7 holland frontsecessione dai suoi vecchi compagni di cordata, che vivevano con malcelato fastidio la popolarità personale di cui godeva sempre più Gabriel come personaggio e autore; Gabriel scrisse anche una lettera aperta alla stampa, in cui con toni semiseri illustrava le sue motivazioni alla base del distacco; ma in quei mesi maturò anche appunto una svolta stilistica iniziata proprio con il magnifico “The lamb…”, un orientamento che andava in direzione di un maggior coinvolgi-mento nelle tematiche sociali e in una ispirazione più metropolitana, proposta insieme alla solita positiva ansia di ricerca, ma stavolta più rivolta allo sperimentalismo sonoro e alla contaminazione, che alla crea-zione di atmosfere fuori dal tempo, sognanti, esoteriche ma pur sempre formalmente classicheggianti, come con i Genesis. Fu così che dopo una cesura in cui Gabriel si dedicò ad una tranquilla esistenza di campagna nella sua residenza di Bath, “…facendo bambini e coltivando cavoli…”, come riferisce lui stesso, e cioè, verdure a parte, pensando alla famiglia, dopo il parto traumatico della prima moglie Jill, e a districarsi tra le varie idee e proposte con cui iniziare la seconda parte della sua carriera, attento a mantenere le premesse, come la sua dichiarata volontà di non piegarsi alla logica affaristica del music business e di cercare di percorrere quelle nuove strade a cui la sua insaziabile curiosità lo spingeva, giunse anche il momento del ritorno fattivo. Il rischio era colossale, stava congedandosi dallo scenario di una sfida decennale vinta, e questo prima ancora di aver concluso le celebrazioni della vittoria. La pausa dalle scene e l’assenza di notizie però lo stavano danneggiando; molti pensarono, accettata l’onestà della sua scelta, che il suo isolamento gli stesse però sottraendo ispirazione e motivazioni. Ma infine la novità esplose: nel 1976, Gabriel vola a Toronto per registrare il suo debutto come solista, sotto lo sguardo vigile di Bob Ezrin, già produttore di Alice Cooper, Kiss, Lou Reed. Gabriel, che cercava non solo di liberarsi dall’Art Rock ma anche di affinare le sue capacità di songwriter, cercava appunto un produttore capace di confermare la sua volontà di smettere parzialmente le sue vesti di compositore europeo per la-sciarsi permeare da influssi nuovi, avantguard nel senso più esplorativo del termine. Ezrin era sicuramente molto americano, e “sapeva usare uno studio meglio di chiunque altro abbia mai lavorato”, commentò Ga-briel. Anche i musicisti scelti furono americani: molti furono elementi provenienti, diciamo, dall’entourage di Ezrin, eroi della chitarra heavy metal come Steve Hunter e Dick Wagner, già presenti anche in alcuni lavori di Lou Reed e Cooper, appunto, ma l’inaspettato arrivava con la partecipazione di Robert Fripp, che con quel contesto nulla aveva a che fare, ma che era, tanto quanto Peter Gabriel, interessato a calarsi in progetti al passo coi tempi, come aveva dimostrato con la mossa shock di sciogliere i suoi King Crimson per diven-tare, dopo un periodo di meditazione in Oriente, una “piccola unità indipendente”. Insomma il cast era “perlo-meno un curioso amalgama di talenti disparati”, come fu scritto su Melody Maker. Il dato ancora più curioso, però, e contraddittorio, in linea con la personalità di Gabriel, perennemente in bilico sul contrasto tradizione-innovazione, era che per confezionare un album che lo staccasse dal suo passato segnato dagli estetismi e dal perfezionismo baroccheggiante, Gabriel si affidasse sì ad un produttore americano, ma ad uno incline ad un’altra forma di grandiosità, quella d’una sorta di hard rock patrizio e quello della stravagante ricchezza del Lou Reed di Berlin, da lui curato. Nonostante ciò, nell’insieme Peter Gabriel I, il risultato di questa interes-sante collaborazione è, secondo i primi commenti di Gabriel, “più semplice, emotivamente più diretto, più personale di quello che ho fatto prima, e penso che si prenda meno sul serio”. Eppure anche qui c’è da discutere: le sonorità sono più sciolte, più dirette, più americane, d’accordo, ma le composizioni restano drammatiche, espressionistiche a tratti; il linguaggio è meno ornato, eppure sembra che l’epica covi sotto le ceneri, che il fondale pgcontrolroomdella visionarietà di Gabriel si sia trasferito su un’immaginario più recente, che l’artista abbia voluto misurarsi con alcune mitologie del Mondo Nuovo portandosi dietro il suo bagaglio di peculiare creatività. “Ero ansioso di comunicare le mie idee efficacemente; successe che i musicisti furono molto entusiasti del mio nuovo materiale e questo mi diede la sicurezza necessaria”. Gabriel confidò anche che, nonostante fosse in cerca anche di una autonomia compositiva, aveva al tempo stesso avuto bisogno di un produttore come Ezrin che fosse in sintonia con lui e spingesse per produrre gran parte del materiale pre-sentato al primo incontro, evitando all’artista inglese di sviluppare troppo le idee o introdurre complicazioni ingiustificate, forse un residuo dell’elaboratissimo processo ideativo che si realizzava democraticamente nei Genesis. L’album, comunque, viene semplicemente chiamato col nome dell’artista, “Deve risultare come una sorta di informazione; non voglio dare una direzione con un titolo”, mentre la misteriosa ma moderna copertina, con l’artista appena intravedibile attraverso i vetri, bagnati dalla pioggia, di una automobile azzurra, è ad opera dello Studio Hypgnosis, e doveva fungere come il primo numero di una sorta di magazine sonoro della nascente discografia di Gabriel, una newsletter inquietante su una personalità sfuggente, un cane sciolto dell’intellighenzia musicale, non un alieno caduto sulla Terra come Bowie, con cui è degno di rivaleggiare, ma un essere umano fortemente obliquo con una identità mutante e una personalità musicale polimorfa con una spiccata capacità di anticipare gli sviluppi tecnologici.
 

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