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Peter Gabriel I_ Car

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TRACKLIST:

Moribund the Burgermeister è l’insolito pezzo d’apertura, che ancora è paradossalmente debitore di influ-enze europee: prima dell’inizio delle registrazioni del disco, era stato con Ezrin a Praga a seguire il celebre Magic Lantern Show, contattando i maestri burattinai locali in vista di un progetto multimediale in chiave space-rock; non se ne fece nulla, ma lui ed Ezrin se ne tornarono a casa carichi di musica folcloristica bul-gara, ungherese, cecoslovacca. Questo brano bizzarro nasce appunto da suggestioni espressioniste mittel-europee, con rimandi visuali a Bosch, un senso di sofferenza e di orrore grottesco, con un trattamento voca-le mefitico ed un ritmo che entra strusciando i piedi pesanti. Vive della contrapposizione tra il Borgomastro, simbolo di un potere che prospera occultando cose e/o demonizzando persone, e l’energia vivificatrice del “Ballo di San Vito” secondo ciò che ne avava letto Gabriel in un testo di medicina che parla-va delle epide-mie del Medioevo; questo ballo, secondo la vulgata, aveva la virtù di restituire vitalità alle persone oppresse da qualche sindrome, chi viene dal Sud Italia magari saprà spiegarlo meglio… Il testo di Gabriel è quantomai oscuro, ma nella successione dei toni vocali (come capitava in qualche pezzo dei Genesis) assume una qualità cinematografica degna del film di Wiene “Il gabinetto del dr. Caligari” e simili. Le percussioni sono sorde, le tastiere subdole, le aperture illuminano lo scenario con una luce livida.

Solsbury Hill è il singolo che in particolare fece invaghire gli USA, anche parte di quel pubblico del vasto mercato americano che non lo aveva mai sentito nominare, di questo interprete venuto dalla perfida Albione, perché si tratta di una ballad country (con la chitarra acustica in primo piano, impegnata in un fitto arpeggio che assume un ruolo ritmico) reinterpretata con un’ottica fantascientifica: un uomo semplice che forse non s’era mai sentito troppo a suo agio in questo mondo, salendo su una collina da dove si vedono le luci della città viene in contatto con entità aliene che – paradossalmente – lo fanno sentire più se stesso che mai, il cuore batte forte ma l’Alieno è solo venuto per portarlo a casa, mentre ancora lui riflette sulle sue stantìe abitudini, su “Quale collegamento avrei dovuto tagliare” e sul camminare “dritto fuori dal meccanismo”. E’ chiara, al contempo, proprio per queste ed altre parole, la natura autobiografica del pezzo ed il gioco meta-forico che allude alla separazione dai Genesis: “…il mio amico penserà che sono uno svitato”, canta Gabriel, sottinteso: a lasciare la gallina dalle uova d’oro.

Modern Love è uno dei pezzi più musicalmente aggressivi del disco, e anche il più diretto, quello in cui più si avverte la partecipazione del produttore e dei session men. Un rock alla Stones, è stato scritto, sicura-mente ruvido anche nel testo, che sembra fare il paio con quello dell’iniziazione sessuale di Rael, il pro-tagonista portoricano di “The Lamb…”; qui l’approccio è pesantemente primitivo ed è quasi destabilizzante immaginare anche Fripp che si prestava alla chitarra ritmica duettando con Steve Hunter come fossero “una coppia perfetta di arrabbiatti rockers”, come rievoca un divertito Gabriel. Il testo è un perfetto compromesso tra l’artisticità del compositore e l’animalità istintuale del performer: pur essendo molto diretto e mirando a smentire ogni rimasuglio di pudore nei love affaires contemporanei, è tuttavia estremamente letterario, e certo non solo per i riferimenti a Lady Godiva, ad una Diana mitologica e alla Monna Lisa, tutte brutalmente attualizzate. Il cantato è un latrato stizzito che conclude le strofe in una modalità “urlata” in una sorta di hard rock acido newyorkese.

Excuse me è il brano a sorpresa dell’album, si apre con una tonalità particolarissima di una o più voci a cappella, quanto davvero di più inaspettato ci potesse essere da parte del co-autore di “Selling England by the pound”. Anche Fripp sta al gioco di questo folk-rock in 7/4: mette mano al banjo (il suo primo maestro ne era un virtuoso) e Tony Levin manovra il basso-tuba e intanto capitanava un Barbershop Quartet, in un omaggio al dixie e al rag, e alla corrispondente fetta di storia del sound (afro)americano, tanto piacevole mu-sicalmente quanto sarcastico, nella richiesta di un uomo alla sua donna di essere lasciato solo, con tanto di scuse di circostanza (fintissime?) “Mi stai rovinando la gioia di vivere” e “Non sono l’uomo di una volta”. Gabriel, in virtù del suo umorismo amaro e malignetto, suggerisce che il tipo non se la sia presa perché la pupa ha avuto indietro i soldi e la Cadillac, ma è infastidito perché calpesta i suoi ricordi e gli ruba da casa i souvenir! Il tutto, si badi bene, sempre messo in una forma imprevedibile.

Humdrum è uno di quei pezzi in cui si riscontrano somiglianze con le atmosfere del passato di Gabriel: dopo l’intro a base di un raffinato piano elettrico, è un tappeto di tastiere ad accompagnare la descrizione per im-magini di una monotonia (humdrum) che compare e riappare in tante piccole situazioni in cui l’uomo medio si ritrova, muovendosi a scatti tra un atteggiamento e l’altro di un copione sciatto, fino all’apertura maestosa in cui finalmente si affaccia il senso primo ed ultimo di tutto l’arrabbattarsi nel piattume, un poetico surrealismo esistenziale sembra accennare all’amore e al Male in agguato mimetizzato nella Natura e nell’anima, ma poi è il meraviglioso, l’irruzione di una forza luminosa extraterrestre che ghermisce dolcemente il narratore men-tre guidava nel sole, in autostrada. La metafisica è dunque presente, ma è preparata da tanti piccoli qua-dretti/frasi pop, quasi nello spirito di un pittore come Howard Hopper, azzardiamo.

Slowburn apre la seconda facciata (immaginandoci ancora la logica del vinile) con una nuova scarica ener-getica, destinata per l’arrangiamento a sorprendere ancora una volta i genesisiani più irremovibili, ma basta gettare l’orecchio oltre l’ostacolo per rendersi conto che la potenza visionaria è intatta, la magniloquenza si è solo trasferita su un diverso terreno: il tema è quello di una Apocalisse che giunga a tagliar corto con tutto quel “bruciar lento” del titolo. Il testo, stracarico e delirante nei toni profetici con cui dipinge un’umanità allo sfascio, è impreziosito da rime baciate assolutamente non prevedibili, che conferiscono al cantato, su quella base irruenta e arroventata ma con precisione clinica, un’efficacia che rende il tutto terribilmente “vero” e se-ducente. “Abbiamo provato con una manciata di bigliettoni e la testa piena di pasticche. Abbiamo cercato di fare film con molti fotogrammi… Cara dobbiamo credere in qualcosa, stiamo per abbattere i nostri cieli, li stiamo abbattendo”. Tutta la catastrofe aleggia e le chitarre creano un turbine, in sottofondo, che ci mangia. Le pause sembrano pneumatiche, raggelanti, ed i cori che fanno da stacchetto prima del ritornello (solo due volte) dedicato al bruciar lento del tramonto sono strida paragonabili a quelle delle arpìe.

Waiting for the Big One insiste ancora sul tema con una differente declinazione, che ha il respiro dei grandi classici jazz-blues, secondo alcuni riprendendo lo stile di Randy Newman, mentre invece Gabriel cita Mose Allison, un pianista bianco di genere blues: “il suo è un genere da piano bar, da saloon, che mi piace moltis-simo”; ancora un’attitudine vicina agli standards yankee, ma anche in questo caso incisa con quel catastro-fismo ultimativo che qui si manifesta con misteriosissime pause evocative, che aprono lo spazio all’inse-rimento dell’elemento trascendente, sotto forma di cori chiesastici o da gospel atterrito; non si sa se il Big One sia un dio punitivo e forse il terremoto che si teme un giorno spazzerà via la costa californiana. Il can-tato di Gabriel è impagabile, calato nella parte del consumato beone che dopo essersi eroso la vita in an-goletti in ombra, banconi, tavoli da gioco, si ritrova con un sacco di gente che si è rifugiiata lì nel locale pen-sando di sfuggire al disastro, e a lui ormai, sia che stiano “celebrando in anticipo la fine dell’anno”, sia che stiano “aspettando il Supremo” non fa più effetto niente. A dir poco travolgente l’assolo conclusivo che si riannoda ai precedenti, quasi una liberazione, anche se simboleggia la catastrofe ormai sensibile.


Down the Dolce Vita parte con un altro strappo, di natura puramente sinfonica, ma di un’orchestra vera, non progressive, la London Symphony Orchestra, condotta dal grande Michael Gibbs, e subito dopo la drammatica overture incalza un ritmo gestito dalle due chitarre duellanti di Fripp e Hunter, in un clima da o-pera rock eccessiva, volutamente kitsch, forse, ma trascinante. Nelle strofe, gruppi di gente comune sembra-no organizzarsi per cercare di sfuggire allo scempio, ma una voce rauca e grottesca interrompe la frenesia per dire “Voi siete proprio matti”, e giù un’altra spigolatura di sarabanda orchestrale. L’intermezzo in cui un Capitano al porto scruta i volti dei fuggiaschi è pure accompagnato dall’orchestra, ma il finale è di nuovo arrembante, a rotta di collo verso il precipizio della inesorabile fine, anche se fino all’ultimo tanto attivismo patetico ci fa compagnia, e per una mano sulla spalla invece di piangere si smuove forse il sospetto e la diffidenza. “Cercando un modo per cavarsela”.

Here comes the Flood riporta un po’ d’equilibrio formale; sembra di vivere in silenzio raccolto, in un’atmo-sfera sonora spettrale, rarefatta, gli ultimi minuti prima del maremoto che sciacquerà via tutto. La sensibilità con cui si cattura l’ultimo scorcio della Storia sembra essere quella interiore, ultimo baluardo contro il Nulla. Ci sono dei toni, come dei bip, che punteggiano l’inizio, e infatti Gabriel riferisce che quando scrisse il pezzo era ossessionato dalla radio ad onde corte, i cui segnali si facevano sempre più forti man mano che calava l’oscurità, così come “anche i livelli di energia psichica in me aumentavano di notte”. Gabriel si interessò anche di ESP, percezioni extra-sensoriali, e in un sogno vide che le barriere psichiche venivano abbattute e dinanzi alla gran massa di pensieri altrui che ci invadevano solo i più onesti o quelli che erano soliti esporre anche i loro pensieri più reconditi sarebbero riusciti a non annegare. In occasione dell’ideazione di questo brano in cui il calcolato cinismo lascia spazio ad una disperazione più elegiaca Gabriel sperimentò anche una di quelle situazioni in cui l’oggettività della Musica sembra condurre l’autore a scrivere proprio quelle note e non altre, ma Gabriel successivamente si convinse che Ezrin aveva superprodotto il brano, creando un crescendo magniloquente imperniato sul lungo assolo conclusivo, mentre forse si sarebbe dovuto chiu-dere in chiave più meditativa, ed infatti ne esistono altre versioni. Ripetiamo: il pezzo comincia in modo rac-colto e solo dopo cresce, struggente e viscerale, ed anche a Gabriel per un po’ piacquero entrambe le ver-sioni, ma comunque Fripp si trovò d’accordo con lui sulla strabordante produzione di Ezrin tanto da dichiara-re che anche se il progetto non era appropriato per lui, decise di rimanere per aiutare l’amico Peter, ma sul suo disco solista del 1980, “Exposure”, ospitò appunto una versione alternativa del brano, incapsulata tra le sue Frippertronics. Ed ancora negli ultimi concerti dal vivo di Gabriel, ogni volta che l’artista si siede da solo al piano, in acustico, ed intona quelle prime strofe, l’emozione scorre diretta da questo timido geniale istrione fino alla folla dei suoi amici!

Il_7 – Marco Settembre

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