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Il mordente, lo sfacelo, le carabattole, i detriti

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[IL­­_7 SU…] 

il7Gaudeamus igitur! Con questo articolo viene ripristinata l’ortodossia: si torna, cioè, nelle pie apparenze para-giornalistiche, a documentare una realtà che sembra ordinata e inquadrata, anche senza il patrocinio del neo-presidente Monti; insomma si torna a recensire i gruppi che si sono esibiti al Contestaccio nel corso della stessa serata, come è accaduto da settembre ad ora.

E veniamo ai The Blennies, che tra l’altro non sopportano tanto i pistolotti introduttivi; come ha già scritto di loro la collega Paola D’Angelo, sono alle prime armi, ma posseggono una padronanza del palco invidiabile, quindi non The blenniessopportano che noi continuiamo a togliergli spazio in questa maniera restando sul vago quando invece loro hanno la smania di spaccare il mondo per poi rifarselo su misura! La loro “Lies can tell the truth” è un dolce e quieto blaterare assorto di chi titilla la chitarra piuttosto che il proprio ego reclinato, e si ac-compagna così ad un arpeggio che articola pensieri su quanto ormai è già irrimediabilmente successo ed enuclea con calma la straziate morale: “Attraverso le bugie di cui Lei mi ha pasciuto avrei dovuto intravedere la verità della sua sordida infingardaggine”. Il brano, cantato in inglese, è di una morbidezza meditativa che sembra reclinare ogni velleità reattiva, ma poi il tenue beat si scuote, sale in prima linea, introdotto dal cre-scendo del basso, e si fa più sostenuto, ed il cantato, anche se mantiene la linearità melodica iniziale, si sol-leva nella rassegnata rivisitazione dei fatti, e c’è spazio anche per un assolo ricamato con indubbia grazia mentre il drumming cresce ulteriormente superando l’effetto calmante del Valium. Un pezzo rotondo e sicuramente ben calibrato e piacevole, anche se non imprevedibile. “Am I not in your game?” è più nervoso, anche se le sonorità scelte addolciscono provvidenzialmente la sotterranea piega punk, ed il risultato è uno stimolante pattern iniziale di chitarra (un zig-zag elettrico con le doppie punte), e poi un ballonzolare brit-pop su onde di impazienza post-adolescenziale dettate da strofe rivendicative sputacchiate con garbata sfaccia-taggine, perché cercare di stare appresso a una che ti costringe a stare alternativamente dentro e fuori (dal gioco, limitiamoci al metaforico) è una situazione da chiarire dal palco! In “Octopus” l’inclinazione è vaga-mente surf e la voce è incalzante, finchè non stacca la strofa per farci di nuovo assaporare la ritmica fitta; il bridge invece è una conca agitata nel profondo dal basso, su cui poi la chitarra innesta malesseri da im-pasticcato a tirar via, e tutta la zuppa riparte verso il finale improvviso, il polpo guizza via in una corrente cal-da lasciandosi dietro solo uno sbuffo d’inchiostro nero. “Punches” ha una linea di basso iniziale da blues contemporaneo smanettato, ed anche il cantato è sordido; il ritornello è aperto, ma è una breve finestra, l’articolazione nevrotizzante dà gusto, anche la batteria si modera mettendosi per un attimo al servizio di un piccolo mantra jazz sperimentale nel mezzo, da cui si riparte con l’evocazione misticheggiante di quei pun-ches (pugni) che possono essere manifestazioni di un mordente da spendere in amichevoli risse sul lun-gomare d’inverno (ma anche no), oppure di quei punches (ponce), magari al rhum in cui non si deve affo-gare troppo nelle feste per non fare flop con le pischelle. Un’omaggio proprio all’effervescenza di certi cont-esti sbarazzinamente cool sembra essere “Mr.Underground”, un pezzo animato da un costante schitarrìo festoso ed acuto col contraltare del basso profondo, mentre la voce cantilena di situazioni glam annacquate in cui non conta tanto il travestitismo o l’originalità a tutti i costi, ma la capacità di far sballare con uno stru-mento in mano al suono di leggeri mantra studenteschi come questi, trovare l’equilibrio musicale tra dol-cezza ed energia con arrangiamenti classici del genere, e non star sempre a pensare agli esami, perché la brunetta del college ci sta squadrando…!

DiscordiaI Discordia debuttano ufficialmente al centro sociale di Vicenza, ma scontano ben presto un nome che si presta ad essere interpretato non solo come un incitamento a mettere della sana rabbia in musica, come in-fatti da programma, ma anche come un’istigazione a distruggersi (pardon, a “sfondarsi”) ciclicamente come gruppo per potersi mantenere solo al prezzo di continui cambi di formazione, litigate, strappi, riconciliazioni, scazzi dovuti ai troppi impegni e cicci vari, e tentativi di adattarsi a strumenti sempre diversi, il tutto mentre sotto al palco la gente furoreggia con risse, simulazioni di orgasmi, esondazioni di fiumi di birra e corpi umani che volano accompagnati “gentilmente” all’uscita dai buttafuori. Però è loro l’indubbio merito di aver animato la provincia di Vicenza con qualosa che suona come “Caos, non musica”: il brano si propone di dimostrare con sgroppate ritmiche assolutamente irregolari e mini-progressioni chitarristiche ed un testo-manifesto ur-lato in un growl primordiale ma in italiano, quello che, a parte la drammaticità impostata del breve assolo conclusivo, è l’intendimento devastante di individui insubordinati all’ordine musicale, che stritolano picchian-do come sciamannati alle soglie d’un inferno inquinato. Queste le intenzioni, e non sono “Menzogne per farvi tacere” perchè chi ascolta, solo se fosse un satanista abituato a spremersi gli occhi e a metterli tra le gambe dei lupi mannari potrebbe chiedere più furore; questo “Menzogne…” nasce da un arrotamento percussivo e poi si sgrana in un assalto ad un immenso fuso di nervi aggrovigliati, con la voce belluina che esplode in un grugnito prolungato di ruvidità abissale. Una seconda voce dice cose che sembrano un’allucinazione acustica tra gli echi di orchi scorticati impiccati a lastre di asbesto graffiate da artigli di demoni. Saranno loro a rispondere alle nostre domande? Ma chi gli chiede niente, io me ne sto a casa! “Il giorno dopo” acquista uno spessore spaventoso grazie al drumming ossessivo e capillarmente sfalsato, e alla voce tarantolata da un rantolo che interpreta anche le vite di divinità e santi alla luce di uno sterminio nichilista delle note che essa vede protratto sin qui dalla notte dei tempi, e l’assolo iperveloce e smadonnante sembra il segno che questo tormento non può resistere a se stesso per più di due minuti e otto secondi, la durata massima tra i pezzi messi in mostra nel myspace, e mi riferisco giusto a “Perso nella nebbia”, in cui il protagonista non fa neanche in tempo a strapoparsi via la faccia dal teschio per la disperazione di trovarsi in mezzo a una sorta di una padana “Fog” di Carpenter e già è morto sin nell’intimo delle sue budella disgraziate. Ma il rischio, come nel remake del 2005, di cadere nell’horror adolescenziale, è sensibile. I Discordia, tuttavia, una volta montati sul palco e in sella ai loro arrembanti rombi sonori, se ne fregano di ciò che è “sensibile”, figuriamoci, ed ecco che il brano a partire dalla breve rincorsa iniziale è un diretto e costante inabissamento nei vapori di un ritmo paranoide violento, come se i Ramones dovessero per forza massacrarsi di stress suonando, e in tre minuti, concedendo solo, armonicamente, un arco scalare di tartassamento in quattro toni. “Sono perso nella nebbia, la mia mente se n’è andata e non la voglio neanche più cercare”. Giusto, perché perdere tem-po? Tanto lo sfacelo universale sta spaccando tutto! “Non respiro” ha un inizio con passo pesante e subdolo, come un asma letale che si impossessa dei polmoni, con la batteria aggressiva e sempre un po’ rovinosamente sincopata, irresistibilmente hardcore, poi c’è un’accelerazione che tritura ogni resistenza, il soffoca-mento è imperioso, lo sferragliamento è pari alle parle gridate raucamente, non cantate, sono grida d’allarme neanche sempre intellegibili, mentre un terremoto massive-punk anti-ipocrita sgrulla la schiacciante realtà: “Non sono come voi un burrattino!!!!”.

Stanley Rubik, di cui, se siete stati distratti negli ultimi tre secoli, potete, a costo della vostra sanità mentale, Stanley Rubikleggere la biografia sulla nonciclopedia, è la controfigura fuori dal tempo del regista tycoon; diremmo piuttosto che è un’entità post-umana che ha tutte le carte in regola per barare al gran gioco sporco della vita, e se pure si ritrova ad avere un arsenale di rumorosi talenti elettronici da imbucare in un allucinatorio tunnel ultrasonoro a cui abboccarsi per ricevere sensazioni degne di questo mondo schizomorfo, tuttavia, per arrivare a godere di un certo successo tra gli ebanisti di Nairobi e le ricamatrici di Marina di Grosseto è stato costretto, come si legge nella biografia di cui sopra, a girare kolossal porno col telefonino giungendo però, di riffa o di raffa, ma soprattutto grazie al filtro (e ai vocoder telepatici) della sua irritante originalità, a farsi largo fino al Contestaccio, mercoledì 23 novembre scorso, dove ha squadernato una serie di identità multiple da musicisti “spostati”, due delle quali hanno disposto sul palco non degli strumenti ordinari, ma un intrico di carabattole biotroniche, diodi a ciuccio, vibratori twist, macinini sonar, grattuge a loop ondivago e nacchere aerospaziali già appartenute ad un coprofilo di Manila ma poi sterilizzate con una pistola a raggi di bicicletta espansa. Quale possa essere l’infiorescenza bizzarra a forma di cubo di Rubik spampanato pronta a spuntare da un tale humus di diavolerie è bene non indagarlo tutt’all’improvviso e a mente fresca, se si è impreparati; consiglieremmo piuttosto di considerare che l’ambizioso progetto pare si sia sviluppato dal tentativo non del tutto premiato dal successo, da parte dell’(apparente) bassista e (ipotetico) vocalist di proporsi come uomo-orchestra deviato e ultimativo. Ora, divenuto parte di un ente collettivo ancora più avventurosamente proiettato nell’ignoto, pare stia meglio penetrando nella psiche degli ingenui spettatori, tuttavia una sua ricaduta nel solipsismo da occhi incrociati è ravvisabile nel video in cui propone una ardita e stralunata cover di “Moonchild” dei primi mitici King Crimson, col primo piano del lead singer che si triplica sdoppiando le pro-prie millenarie fantasie nel buio di un’oscurantismo da tramonto della seconda repubblica, appena ravvivato dai lampi elettrici di certo underground shock! La telecinesi da stardom dello sperimentalismo riesce, in virtù della sua “struttura che connette”, a coniugare l’indubbia comunicativa thrill-emozionale dei suoi elaborati a fondersi con la sapida turgidità di un impianto post-rock dal profilo poco rassicurante visto il fomento incon-trollabile che gli acuti vocali scabrosi riescono a diffondere nell’aere nei momenti più drammacidi dell’ingom-brante show! Ma forse parliamo di due pieghe dello stesso versante del Delirio, o forse dell’eruzione di un’ urgenza purulenta che soggiace allo psichedelismo laboratoriale e ancora algido di scherzetti come “Teaser cube”, un promo in cui il sussulto neurale dovuto ai diversi impulsi radio-sonori e alle loro diverse frequenze è tenuto sotto controllo dalla tensione a mantenerci all’oscuro della loro più losca attività, fino al prossimo live. Infatti il loro myspace si distingue per la sua roboante assenza dalle quattro dimensioni più conosciute, costringendoci così ad una recensione abnorme che non rende interamente giustizia alle loro formule neuro-space-rock e soprattutto che non ha pietà di chi sta leggendo. Vertigine post-prog di ascendenza fritto-cinematografica maniacale!

seX eXI seX eX si presentano sul palco con l’aria compressa di chi non vuol farsi notare prima di sparare le proprie cartucce, ma è un attimo, e già arriva la richiesta al banco del mixer di alzare il livello della chitarra 1, che è quella che crea il groppo sonoro in cui i traumi si annodano, in questa proposta dall’umoralità instabile e pa-rossistica nel recitativo vocale furibondo. Il loro primo disco pare sia il risultato di una co-produzione Chi-cago-Bologna, e vanta la collaborazione prestigiosa di Laura Loriga dei Mimes of Wine e di Stefano Pilia dei Massimo Volume, ma questo potrebbe anche non indurre a pensare a espressioni di una certa gravità, men-tre invece è la leadership indiscussa di Emiliano Ereddia, alla voce e chitarra, a scavare un solco (di ammi-razione perplessa) tra i musicisti responsabili di questo output rabbioso, ed i miseramente “normali” ascol-tatori, che cercano di identificarsi ma non ce la fanno fino in fondo, ed è meglio per loro. D’altronde, l’artista non può essere visto pregiudizialmente come malsano se è portatore di una alterità, o no? Il rock alternativo dei seX eX in “Vuoi giocare” è selvaggiamente urbano, si sostiene su una virulenza chitarristica dalla pres-sione già troppo alta per essere standard, all’inizio, e poi si scopre anche screziata da una seconda chitarra che crea lo sfrigolìo solistico nevralgico complementare; la voce si diffonde in uno “spoken word” che sfocia nell’urlo isterico da grotta sacrale di un’interiorità in rimescolìo, ed infatti lo spessore delle sei corde diventa wall of sound uretrale, colata di lava intracranica! Cosa potrebbe mai dire di questo, Allen Ginzberg? La seconda fase presenta ancora le parole come sassate incandescenti doppiate dalla velenosità in rivoli della chitarra solista, che cerca di sorpassare le proprie maledizioni per poi bloccarle sterzandogli davanti al muso mentre l’atmosfera brulica di demoni di un rapporto pervertito proprio per lei, l’amata pazza! “Pesci” con un ritmo costante degno di una marcia penosa su una pista acida, sfoggia una voce effettata all’inizio, che con-cede spazio ad un vocalizzo perso col contorno di un ritmo da bacchette della batteria picchiate sulla stizza, a tratti quello straccio di storia viene ricoperto da una coltre più pesante di chitarrismi sprezzanti e lo schema si ripete; “sempre quello sguardo incantato a dirmi sempre di no…”: quando la vicenda si fa convulsa, ogni virgola solleva detriti dal cervello. L’attacco di “Ti ascoltavo” è immediatamente teso in una giungla noise, ma poi inchioda brusco, in una bolla di riflessione di breve durata, per poi ripartire sempre con la lancinante chitarra solista a tracciare ghirigori nevrotici, difficile sopportare il ricordo di quando la si ascoltava – non ci si può rimproverare di non averlo fatto – e poi finire a svociarsi soli in stanze chiuse; nel finale il narratore su base percussiva jazz-rock riferisce di uno spuntino notturno con un amico a base di uova di cane, e poi giù sul pavimento a sbucciarsi le ginocchia col pelapatate, finchè all’improvviso s’è fatto giorno. Ecco cosa ri-mane da ascoltare: il silenzio d’un amico, un’anima in pena gemella che rosica qualcosa con noi. Quando si ha “divorziato” da una svitata, farsi prendere da certe urgenze e fare sex con l’ex può significare andare a cercare di avvoltolarsi nei guai: a parte la dissonanza cognitiva, chi ci dice che sia safe-sex? E’ più facile che sia la pericolosa scorciatoia verso i seX eX!

il7 – Marco Settembre

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