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Super 8, regia di J.J.Abrams

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Img1Io non ho niente contro i tuoi amici, a me piacciono. A parte Cury che non la smette di dare fuoco alle cose…”.
Siamo nel 1979 e Joel Lamb (Joel Courtney) insieme a suo padre Jackson (Kyle Chandler), vice-sceriffo della città di Lillian, stanno mangiando in un locale tra le note nostalgiche di “Easy” dei The Commodores.

Jackson comunica al figlio che passerà sei settimane all’Hewitt Baseball Camp e Joel, dal suo canto, gli rammenta che avrebbe preferito passare l’estate a casa, dato che dovrebbe aiutare il suo amico Charles (Riley Griffiths) a terminare il suo film horror sugli zombie. Basta poco, uno sguardo di duro distacco e fragile incomprensione, per notare che tra la mancina di Joel si ritrova stretta la collana appartenuta alla madre, purtroppo deceduta in un incidente sul lavoro quattro mesi prima.
Quella stessa notte, per via del deragliamento di un treno militare, le tante piccole vite della città immaginaria dell’Ohio saranno destinate a cambiare per sempre.
Cari, carissimi anni ’80, siete stati tremendamente trash ed inspiegabilmente fascinosi, ci avete portato gioielli come Blade Runner, I Goonies, E.T. Ed Explorers (senza contare L’impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi); la musica ce l’avete avuta da sempre nel sangue e pezzi di storia come gli Chic con “Le Freak” o gli ELO (Eltric Light Orchestra) con “Don’t bring me Down”, sono ancora conservati gelosamente nell’immaginario collettivo.
Certo, c’erano ragazzini più intraprendenti in quegli anni, per chi andava alla ricerca di tesori nascosti e sepolti dai più temibili pirati o chi si accovacciava in mezzo all’erbaccia di notte, a mangiare bubble gum candies e ad intonare i The Knack con “My Sharona”. Si usava ancora il Super 8 millimetri e stavano uscendo quei cosi chiamati Walkman, che sono come “uno stereo, che legge le musicassette”.
Potete anche chiamarlo stupido, ma in un certo senso J.J. Abrams ha colto pienamente nel segno, riproponendoci musiche, stradine da classica cittadina Americana e magliette a righe colorate, con altrettante camice dalla dubbia fantasia floreale.
Portandosi dietro un’icona come quella di Steven Spielberg, nel ruolo di produttore, è riuscito a richiamare a sé quella classica atmosfera d’avventura fin dalle prime scene, ovvero nel connubio tra i due loghi Bad Robot ed Amblin Entertainment, con tanto di ragazzino che vola sulla sua bicicletta al chiaro di luna.
La sua idilliaca collaborazione con il superbo compositore Michael Giacchino ricorda tanto quella che fu tra Steven Spielberg e John Williams, e non sembrerebbe nemmeno tanto strano ritrovare una certa imponenza similare nella soundtrack di Super8. Ed è un vero peccato ammettere che, con ogni probabilità, il batticuore e le speranze nutrite per questa pellicola si sono istantaneamente fermate nelle prime scene.
Perchè aldilà del cast ben nutrito, composto da un gruppo di quattro ragazzi abbastanza riuscito,dalla biondissima quanto talentuosa Elle Fanning e dall’ex coach di Friday Night Lights Kyle Chandler, c’è qualcosa in Super 8 che fa storcere il naso allo spettatore.

Con un alieno decisamente più crudele, maggiormente vicino a Cloverfield e a District 9 che ad E.T o ad Incontri ravvicinati del terzo tipo, non si respira quella sorta di alchimia e complicità che vigeva in ogni film

presente nella nostra infanzia.
Relazioni e psicologie dei personaggi sono costruite attorno a dialoghi deboli, smorti, forse anche un po’ troppo irreali a dispetto delle generali aspettative e la trama che ci conduce attraverso un primo tempo esemplare, divertente e coinvolgente, ci apre la porta ad un finale egregio ma chiaramente incompleto, privo di quello che solitamente è chiamato cuore.
Perché volente o nolente il cuore è sempre stato una delle parti principali delle pellicole di Steven Spielberg, che in questo caso getta il suo occhio e la sua essenza in un unico oggetto rappresentativo, determinato dalla collana della madre del protagonista.
Lontano da ogni tipo di interazioni con l’alieno per tutta la durata del film (tranne nel momento clou privo di pathos), interessato maggiormente alla sua cotta adolescenziale nei confronti della coetanea Alice Dainard, Joe si rappresenta attraverso la sua passione per i  modellini e la collana con l’immagine della madre, che lo tiene insopportabilmente attaccato al passato e ai ricordi, come se questi gli tenessero compagnia e lo guidassero attraverso le insidie del mondo, tra il rapporto disastroso con il padre e la paura degli eventi soprannaturali che lo porteranno ben presto a maturare.
Come fu con Elliot per E.T., qui Joe è assediato da dei primi piani densi e carichi di emozioni, dove un paio d’occhi riescono a comunicare tutto quello in cui la sceneggiatura fallisce.
Non è sempre facile unire il logo di un Robot forse troppo moderno, con la poeticità di un bambino che vola, ma se l’atmosfera anni ’80 si sposa perfettamente e senza sbavature contro l’eccellente effetto speciale dell’incidente ferroviario (opera di quella famosa Industrial Light & Magic), il resto della trama e del cuore pulsate di questa, non riesce a ricreare il miracolo.
Forse siamo noi spettatori troppo cresciuti ed affezionati ad un’isola che non c’è, a non riuscire più a vedere con gli occhi di un tredicenne complicato e confuso, o semplicemente Abrams è più bravo nel mistero, tra spie doppiogiochiste ed universitari alle prese con le loro crisi esistenziali; eppure come accade per ogni cosa, per ogni incredibile cult e capolavoro cinematografico, la magia non è qualcosa che si ricrea ma che semplicemente appare ed esiste.

Alessia Grasso

Alessia Grasso, cinema, J.J. Abrams, martelive, martemagazine, Recensioni, Super 8

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