I barbari, le omelettes, l’analisi, l’indignazione
[IL_7 SU…]
Cortesi e smaliziati lettori, anche questa volta, perché non pensiate che vi prendiamo in giro, lo dichiariamo subito: il sottoscritto per forza maggiore continuerà a rimescolare le carte in tavola, cioè i nomi dei gruppi che si sono esibiti al Contestaccio, non per fare il gambler, ma semplicemente perché le situazioni che capitano ci tengono a far sapere che sono imprevedibili!
Pare che sarà così fino a che non muteranno gli allineamenti astrali, quindi non fatevelo ripetere, altrimenti rischierei di essere noioso per colpa vostra e voi, annoiandovi, sareste i primi a rimetterci! E veniamo a Luca Longobardi, che proprio per essere altrettanto imprevedibile non si è fatto metter nome Agilulfo o Liutprando né porta la tradizionale barba lunga omaggio rituale a Odino, eppure è chiaramente un discendente di quei “barbari” longobardi che invasero l’Italia nel VI secolo dopo Cristo, e questo lo si deduce, più ancora che dal suo cognome, dal suo neanche tanto segreto proposito di invadere… il mercato discografico. Già il suo stesso nutritissimo curriculum sembra un tentativo di suscitare sudditanza psicologica nel suo uditorio mostrando i rigogliosi frutti della sua profonda dedizione alla musica: il diploma in pianoforte, quelli in Composizione e Musica Elettronica, il titolo di Bachelor of Music in Piano Performance alla Manhattan School of Music. L’attenzione alle tradizioni musicali folk campane da un lato, e il forte orientamento alla multimedialità lo hanno portato a prendere parte a diversi progetti teatrali, fino a perseguire forme di teatro totale di cui ha curato la regia ed il light design e la grafica, e in cui anche il balletto e l’action painting giocano un ruolo importante. Ha all’attivo due CD: “29|33” e “B612”, da cui forse sono tratte le tracce presenti sul suo myspace, tutte strumentali. “La stanza di Valeria” non sorprende dunque per la perfetta produzione, ma per il senso di giocosa cerebralità cristallizzata alla Michael Nyman che viene agitata dal flusso di note in solfeggio che mantengono un approccio in bilico tra poetica evocatività e strutturalismo meditato, cui concorre l’ipnotismo del contrappunto a base di xilofono, probabilmente simu-lato sempre dalla tastiera, e la cadenza da minuetto contemporaneo, musica da camera, postmodernità nella stanza, quella di Valeria, spazio per un cameo intimista. “Hellas” inizia con un arpeggio chitarristico quieto e sottilmente malinconico a suggerire l’elegante compostezza della culla della cultura mediterranea, mentre il piano accompagna il biancore abbagliante di questo sognante riflesso di un tempio su un pelago trasparente ed apollineo, in cui la melodia resta su un registro minimalista. “P2” si sviluppa da un solfeggio incantato a tratti vitreo, su cui svirgolano svisate elettroniche e affondano note grevi, entrambe isolate, in una com-posizione dall’enigmatica brevità. “Botafumeiro”, malgrado il titolo, non sembra certo avere il calore fumi-gante di un attacco frontale rock, né elementi brasiliani, al contrario vanta una prima parte vagamente set-tecentesca, negli aggraziati accordi, salvo poi acquisire dei risvolti più romantici nella progressione che segue, la quale produce un’emozione che assume profondità, nella sua fragilità, man mano che avanza, per concludersi con un tono di sentimento strozzato dalle acutissime note di chiusura, prima del greve suggello. “Berta” appare come una mazurka suonata con la funzione fisarmonica, che ondeggia, sopra al ritmo, ora con lievi variazioni di tonalità, ora con forme armoniche che ricordano nenie celtiche come quelle dei Lyonesse, ed il contrasto tra il suono nostrano e le atmosfere delle corti altomedievali nordiche è originale, e ci riporta all’origine del cognome dell’artista, e a quel Paolo Diacono, storico, orgogliosamente longobardo, che rappresenta, insieme alla sua opera, in lingua latina, l’integrazione che si ebbe a partire dal VII secolo, tra Longobardi e Romanici, un po’ come Luca Longobardi è riuscito ad affrontare felicemente con piano e tastiere, nel corso della sua ancor giovane carriera (ha solo 35 anni), folklore campano e sperimentalismo elettronico di respiro internazionale.
Kutso simboleggiano, con la loro stessa esistenza, la messa in poltiglia di una intera società, realizzata attraverso la messa in onda di una serie di programmi che possono essere istruttivi solo per quelle casalin-ghe arrochite e incorreggibili che in testa non hanno altro se non la messa in piega. Non diciamo questo per-ché abbiamo in uggia le casalinghe (a volte anche noi lo siamo, e sguatteriamo sotto al lavello), ma perché per spiegare la crisi dei mercati, non possiamo sempre e solo addurre gli scioperi dei calciatori, ma dob-biamo anche ricordare il ruolo di certa musica, che non si sa se sia causa o effetto, delle perversioni della classe politica italiana e padana. “Questa società” assurge ad inno per tutte quelle nicchie di sbertucciati che nascondono a tutti di essere indemoniati per poi rivelarsi all’improvviso con scoppi di collera musicale ridan-ciana come questo e facendo “strage di nemici e passanti”: un evidente paradosso ventilato tanto per non mettersi tutti dalla parte degli scontenti! Un paradosso che sarà preso sul serio e giudicato diseducativo da tutti quei vaticanisti e professori di S. Cecilia che considerano Elio e le Storie Tese, la matrice comune per gruppi come questo, un sottoprodotto della generazione del riflusso, mentre loro, orfani della DC, ricordando le offerte in denaro in cambio di indulgenze dal Trecento al Cinquecento, vorrebbero spacciare le loro omelìe come omelettes e renderle obbligatorie per l’omologazione! Il video è magistrale e mostra i componenti del gruppo in vesti di nerd rurali e di animali da fattoria mentre, col sound ostentatamente rock-cabarettistico, a ritmo di ska, il figlio del contadino, di mente aguzza ma in pigiama, dice di non essere felice, “passo il tempo ad imprecare, vorrei leggere Nietzsche ma non ho tempo neanche per pisciare”, probabilmente perché impegnato conformisticamente a soddisfare le richieste di “spontaneità” standard di una società che invece produce “meschinità”, ipocrisia, e psicopatici di cui poi si lamenta. I vocalizzi in chiave be-bop della terza strofa sono l’espressione euforicamente schizofrenica, di chi – secondo Durkheim – è riuscito a trovare desiderabile la coercitività. Ma badate: non credo fino in fondo a quello che scrivo, perciò… “Aiutatemi”: un brano nevrastenico di stampo funky-punk con il video che mostra i musicisti che suonano in un playground e vi scorazzano in tricicli colorati mentre il vocalist incarna il prototipo del giovane qualunquista: “finisco sempre col fare cose che non voglio solo per ingrossare il mio portafoglio”, oppure “trovo sempre scuse per non muovere un dito e poi lancio le mie accuse da trentenne fallito”; autocritica di una generazione che sa di non poter facilmente riuscire a cambiare le cose. Anche se oggi esistono forse più strumenti… per suonare una musica cazzara che alluda ai problemi, c’è sempre qualcuno che cerca l’appoggio occasionale di improbabili salvatori della patria: “Aiutatemi… vi ringrazierò!!”, animato da parassitismo mistico: “Mostratemi la via!” “Siamo tutti buoni” è un pezzo che non si fa incantare dai messaggi edulcorati, cresce su un bel riff college-punk, e dopo i tentativi di inebetimento, sbotta, inconsolabile: “Sento in giro odore di morte, mi sputo addosso e strillo più forte”. “Alè” inizia con “Divento vecchio, noioso, pietoso e ridicolo… ed ora son felice, sono allegro, ed i miei giorni cantano con me” e poi elenca l’occorrente per poter dire “Alè!” e farsi rim-piangere, se non altro per aver creato una piccola gemma di delirio dissociato post-rock in cui la strofa brulica su un fondo granuloso, e in cui il finale è abbandonato ad una distorsione plurima. Secondo me, tantomeno può essere “Marzia” a salvarci, perché il simpaticamente stucchevole mood da anni ’60 italiani non potrà nascondere a lungo quel “qualcosa” che Marzia non sa, e cioè non che “notte e giorno penso a te” ma che piuttosto il suo lui gli ha messo le corna e che nei suoi incubi farà presto capolino un mostro giallo che la cannibalizzerà (ma queste sono solo nostre pietose ipotesi). I Kutso sono freschi, ma anche stanchi di tutto il lesso che circola, quindi si candidano a musicare il tracollo del ministro Brunetta, se mai ci sarà. Nel frattempo, diciamo che se i conti dell’Italia sono in regola, i Kutzo devono stare attenti a non inflazionarsi troppo sul mercato.
The Konspirators, come dice Luca Giurato, noto nemico… giurato del sistema, che li ha incontrati, se non si lasceranno invischiare in compromessi, potranno avere un sicuro successo, perché quando il popolo si sveglierà, preferirà di gran lunga l’abrasività di un “Punkabbestia” breve e secco eseguito al Contestaccio davanti ad un pubblico complice, piuttosto che il teatrino di maschere grottesche dedite a partecipare ai festini pseudo-africani, o a parteciparvi incuranti delle loro panze. Di conseguenza già adesso la vendita dei dischi dovrebbe procedere spedita in certi ambienti in cui gli indignados usano riunirsi in clandestinità per scambiarsi messaggi improntati alla verità e non forgiati con intenti propagandistici. “Parlano, tramano, scel-gono, decidono… dietro le spalle” canta il vocalist in “Dietro le spalle”, appunto, ma in realtà oggi l’arroganza del potere è tale da compiere i suoi misfatti alla luce del giorno, forti della loro impunità, mentre è di pochi il coraggio di contestare a viso aperto e chitarra sguazzante in formicolio funky come i Konspirators, che cita-no il film “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” per ricordarci, con le parole di Enrico Maria Salerno, che la repressione è un capitolo importante dell’attività del Sistema. E la musica non può che es-sere tesa, contratta, ridotta alle funzioni di mera sopravvivenza ribellistica, batteria e chitarra nevrotizzanti ed antiestetiche, volte ad incentivare le reazioni nervose, a mantenere tutti in uno stato di vigilanza armata di senso critico, anche se ci sono esempi che dimostrano come lo stato adrenalinico possa indurre una con-dizione di benessere in chi ricerca i valori della schiettezza brutale: “Stare bene (yes we can)” è un ribollire frenetico di pensieri positivi, pompati su da una chitarra ritmica che compie un continuo saliscendi tonale, il volto terapeutico del punk come sfogo adolescenziale. “Niente problemi, niente paure, niente sospetti, né congetture!.. Ce la posso fare!”, ma anche l’ombra del dubbio: “Stare bene è importante, rassicurare; stare bene è meglio che niente…” e una qualche armonia chitarristica si insinua nel variegato mantra da epilettico. Questo è quello che più verosimilmente possiamo fare, non la rivolta sociale; potremmo accontentarci di prendere cura di noi stessi, se il governo non ci ammorba. “Maturità” ha un ritmo ed un riff da vecchio blues inquinato dall’attitudine sbomballata del sottoproletariato urbano anni ‘70; l’assolo però ci aiuta ad “affrontare i problemi, tirare somme e le conclusioni, imparare dagli errori, superare le divisioni: maturità… maturitààààààà!” e le distorsioni impazzite e incrostate in chiusura fanno crollare il castello di carte così faticosamente costruito con le raccomandazioni di prof e genitori: si vede che non era farina del nostro sacco! “Analisi” si getta all’arrembaggio delle proprie debolezze per poterle sputtanare: “Mi scopro più buono, mi scopro più bello, mi scopro più giusto…: vado in analisiii!”, e anche qui l’assolo storto di chitarra gioca sulla dissipazione delle proprie risorse farmacologiche, e avvitandosi in spire acidognole finisce col consumare, tra le altre pasticche, anche le pillole anticoncezionali della propria ragazza! “Anarchy in Texas – live” si gioca il proprio carattere trascinante sulla selvaggia euforia di chi prima di suonare si ubriaca, oltre che di birra di infima qualità, anche di fantasie sull’instaurazione di una forma di governo da “casino nel pub” nel cuore degli States repubblicani, là dove i petrolieri più rammolliti si sentono come J.R. del giurassico telefilm “Dallas”, figuriamoci gli altri: kospirano contro Obama! Ma magari sono io ad essere disfattista.
The Bosh sono un progetto hardcore radicato a Roma ma germinato dall’unione di membri con background sottilmente diversi ma accomunati da un’irruenza che potrebbe spingerli a masticare crani se non salissero sul palco sempre dopo aver mangiato. Già, ma cosa? Il tastierista e cantante Mago Potelma ha militato in una ska band di Termoli, ed il loro ormai ex chitarrista Pippo era un punk senza pastoie, mentre Ciccio SMEG (che diavolo significherà mai?) veniva da Lecce per suonare il suo basso ska-core in faccia a chi mal lo sopporta. Il gruppo però, essendo affamato di esperienze e di voglia di spettacolarizzare le loro turbe, ha finito con lo scrivere più pezzi di quanto la loro rabbia potesse contaminare, e perciò il drumming veloce e stregato e gli accattivanti riff incarogniti si sono ammorbiditi lentamente evolvendo verso una dinamica più melodica, dichiarano. Davvero? Ora, con una line-up ridotta a quattro elementi, hanno prodotto quindi del materiale rilassante? Scordatevelo; loro sfondano tutto e non rifondono i danni. “Libero da chi” picchia inizialmente delle mazzate elettriche con risucchio, poi il brano prende il via e la ritmica è pesante e si carica addosso mangiandosi le battute da sola pur di far accavallare i nervi. “Voglio lucidità. Devo poter decidere da me… libero da chi? Libero da me…” Il rallentamento e la stasi sono un ictus momentaneo, la sperimentazione di una riflessività che subito porta angoscia, e allora è meglio ripartire compattamente sfrenati mettendosi in gioco con tutta l’indipendenza che scuote i neuroni e li galvanizza come un elettroshock! “Onde” è un’irrefrenabile struttura che vive sull’irregolarità istintiva eppure ben combinata di un testo che, declamato da una voce sinceramente esacerbata, si china sulla massa di strumenti a captare le onde, e di una matassa di suoni ruvidi e irsuti che iniziano con impulsi da tortura, e poi sferragliano nella testa inducendo una sana reazione alle contrarietà che ci provocano apparentemente senza motivo. Ma non sarà che con le nostre onde “incazzose”, le attiriamo? No, chiedo, così, perché mi interessa, eh? “Un maledetto fiume in piena, non lo fermerò, sarà solo un’altra onda, oggi la cavalcherò …ma la tua verità un’altra onda me la porterà via”. A meno che la martellante sezione ritmica, che a tratti procede a colpi veementi in 4/4, non la inchiodi ai nostri sogni. “Fuori dal cerchio” permette di distinguere con maggior nettezza del solito la galoppante enfasi del drumming, la losca punteggiatura del basso, e l’insistente invadenza dei riff che spingono il furore verso forme alterate di ragionamento: “Prendere le distanze, indignazione! Va tutto bene! Fuori dal cerchio è fuori dalla mente” è la sconnessa percezione di un’insensatezza che brucia le carni di milioni di persone, la guerra, e riduce chi è lontano alla indifferenza apatica o alla rabbia impotente. Ma sotto c’è un mercato che “va tutto bene!” Tranne ai “Men against”, brano sugli “uomini contro”, che rinunciano al “saper vivere” per bruciarsi il fegato e far da avanguardia delle coscienze: l’inizio è sordo ed inquietante, con echi sotterranei che poi si destano e spargono raffiche di risentimento, per poi diffondersi nella tipica, diversificata concresi magmatica di ritmi, controtempi e riff allarmanti, da battaglia civile che non accetta facili accomodamenti basati sul valore delle democrazie occidentali e anzi cannoneggia i Parlamenti corrotti e lassisti, con cunei sonori al curaro!
Il_7 – Marco Settembre
Kutso, Luca Longobardi, marco Settembre, martelive, martemagazine, musica, Rubrica Il_7 su, The Bosh, The Konspirators