Cigalini e il suo sax
Mattia Cigalini è un sassofonista che a soli 22 anni ha le idee molte chiare sulla sua carriera, sulla vita e sulla musica. Dopo Arriving Soon, disco realizzato con grandi musicisti italiani come Tulio De Piscopo, Fabrizio Bosso, Andrea Pozza e Riccardo Fioravanti, torna con Res Nova, suite interamente scritta di suo pugno di cui ci racconta, insieme a molte altre cose, in questa intervista.
Come ti sei avvicinato alla musica e come mai hai scelto proprio il sax come strumento?
La musica era un qualcosa che già si trovava in casa mia perché mio padre era un appassionato di clarinetto e mia mamma era una chitarrista classica per passione. Da piccolo soffrivo di una forte forma di asma respiratorio che negli anni peggiorò sempre di più così mi ritrovai a 7-8 anni nella condizione di dover trovare assolutamente un rimedio e il medico consigliò caldamente a mia madre di provare a farmi suonare uno strumento a fiato. Per puro caso o per destino, esattamente in quel momento la banda del paesino in cui abito tutt’ora, Agazzano, in provincia di Piacenza, cercava bambini da reclutare e includere nel suo organico così andai nella sede della banda e al momento di scegliere uno strumento ce ne fu uno che mi fece innamorare per la sua conformazione e per la sua luce dorata: il sax contralto, lo stesso che suono adesso. Provarono a rifilarmi anche il soprano, che nessuno vuole perché è un po’ più ostico per chi inizia, ma io ero troppo innamorato del contralto! All’epoca l’unico strumento che avessi già toccato era il flauto dolce con cui facevo le canzonette alle scuole elementari come tutti i bambini del mondo. L’insegnante di sax mi fece vedere solo come si montava e poi ci saremo dovuti vedere la settimana successiva, ma quando ci tornai già suonavo tutta la scala per l’estensione dello strumento, perché ne ero talmente innamorato che mi ero messo a studiarlo da solo esplorandone tutte le combinazioni. Il maestro restò molto meravigliato e consigliò a mia madre di mandarmi al conservatorio così tentai l’esame di ammissione. Era molto difficile che mi prendessero perché c’ero io, che avevo solo 9 anni con lo strumento della banda con delle chiavi tenute insieme con lo scotch, e poi tutti gli altri energumeni che avevano più di vent’anni con dei sax nuovi, stupendi, bellissimi… e invece fui selezionato proprio io per l’unico posto che c’era e da lì è iniziato il mio cammino di studi classici di sassofono, che ho portato a termine fino a diplomarmi col massimo dei voti. Il mio percorso è strano perché esistono tante variabili che hanno fatto sì che io prendessi questa strada: è buffo pensare che tutto è iniziato a causa dell’asma!
E quando l’incontro col jazz?
A 12 anni ci fu l’altro colpo di fulmine fatale perché mi arrivò il primo disco di jazz: quando sentì Miles Davis la mia vita non fu più la stessa! In quello stesso momento decisi che volevo assolutamente fare quella musica! In realtà io ho sempre ascoltato e studiato solo ed esclusivamente musica classica e ancora adesso non studio mai musica jazz e le improvvisazioni degli altri sassofonisti. La musica classica è da sempre il mio riferimento ma quando ho sentito per la prima volta questo suono così aperto decisi che volevo fare quel tipo di musica. Iniziata la scuola superiore ebbi però un sacco di problemi perché già mi chiamavano per concerti in giro nel nord Italia… mi chiamavano il Piacentino, o il Baby – piacentino perché ero piccolino!
Nel tuo ultimo lavoro, Res nova, si sentono diverse influenze musicali, come nasce quest’opera?
Res Nova è un’opera nel senso strutturale del termine, perché è divisa in movimenti come vuole la concezione classica di suite. È una composizione che io ho voluto arricchire anche dal punto di vista extra-musicale con un significato rappresentativo della vita quotidiana di ognuno di noi. È curioso che tutta questa grande opera si basi in realtà su un frammento melodico piccolissimo, una melodia che io ho sempre avuto in testa fin da bambino, ancora prima che prendessi in mano uno strumento per la prima volta. Da piccolo prima che iniziassi a suonare il sax avevo in casa sia il pianoforte che la chitarra di mia mamma e cercavo sempre ad orecchio queste note sia sul pianoforte che sulla chitarra e qualche volta i miei genitori mi hanno registrato. Poi dopo tanti anni ho riascoltato le registrazioni e ho deciso che dovevo farci qualcosa così due anni fa iniziai a scrivere Res Nova. Queste poche note vengono enunciate all’inizio della composizione e tutta la suite si basa su procedimenti modificativi di questo piccolo frammento. Questa frase viene rimescolata in tanto modi diversi e sullo svilupparsi di questa melodia si articola la composizione, fatta di tanti momenti di musica scritta ma altrettanti di musica completamente libera, di improvvisazione totale. Poi ho voluto fare qualcosa di un po’ più ambizioso e rappresentare quelle che per me sono quattro punti cardine della vita quotidiana a cui si può rapportare tutto ciò che ci accade: la natura, la forza, l’amore e la casualità. Ogni movimento si articola in due sottomovimenti: la natura in destino e fantasia, la forza nella fede e nel tempo, il terzo movimento è l’amore che ho voluto isolare in una posizione a sé stante e poi c’è la casualità che secondo il mio punto di vista può essere alimentata dai sogni e dalla speranza. Per quanto riguarda il lato musicale io devo tantissimo ai musicisti che mi accompagnano, Mario Zara, Yuri Goloubev e Tony Arco che sono tre musicisti che non hanno mai suonato insieme ma che ho voluto avvicinare tra di loro perchè sentivo una grande personalità sul loro strumento come tratto che li accomunava, cioè Mario Zara è un pianista inconfondibile, Yuri Goloubev era un contrabbassista inconfondibile e Tony Arco suonava in un modo veramente riconoscibile: proprio quello che io volevo per questo progetto in cui ci sono molti momenti di improvvisazione libera collettiva! Quindi concepita quando avevo 19 anni, a marzo scorso l’abbiamo finalmente registrata in studio per la My Favorite Records, distribuita dalla EMI ha visto la luce a maggio. La mia soddisfazione sarà martedì quando la presenteremo al Teatro del Pavone nell’ambito dell’Umbria Jazz, il festival italiano più famoso del mondo: è tutto è partito da un ricordo della mia infanzia!
Cos’è cambiato rispetto ad Arriving Soon?
È cambiato tutto! A iniziare dallo strumento che uso! Ora ho l’onore di essere il più giovane endorser di Yamaha e l’unico sassofonista italiano presente in questa cerchia di artisti che l’azienda seleziona molto attentamente. Ho ricevuto lo strumento che la Yamaha ha fatto su misura per me una settimana e mezzo prima di andare in studio ed era molto diverso da quello che ero abitato ad usare ma, pur non conoscendo benissimo lo strumento, ho voluto rischiare e andarci subito in studio! Fortunatamente mi sono trovato subito perfettamente a mio agio!. Poi sono cambiato io e la mia visione della musica perche Arriving Soon è un po’ il “biglietto da visita” perchè è un disco che mi vede contornato da grandissimi musicisti: Tulio De Piscopo, Fabrizio Bosso, Andrea Pozza e Riccardo Fioravanti. Lì mi confronto con la tradizione, cioè io cerco su questo mainstream di jazz tradizionale di dire la mia ma resta un tipo di musica più tradizionale e convenzionale, è jazz dalla prima all’ultima nota. A Res Nova il termine jazz sta stretto perché si spazia in generi di musica apparentemente lontani tra loro perchè ho maturato l’idea di cercare qualcosa che sia fresco, riconoscibile e il motivo del titolo è proprio questo: cosa nuova perchè la sonorità non è solo quella del jazz tradizionale ma abbraccia generi di musica molto distanti. È cambiato tutto: questa è musica mia che non riesco a etichettare come jazz…che genere è lo dirà la critica e le riviste del settore però era quello che sentivo di fare in questo momento, molto diverso da Arriving Soon. Inoltre in via ufficiosa posso anticipare che questo autunno uscirà un nuovo lavoro con ancora altre sonorità diverse perché il mio desiderio è quello di mettermi costantemente in gioco, cercare la novità ma soprattutto cercare la mia voce.
Chi sono i tuoi modelli di riferimento?
Mi trovo sempre in difficoltà a rispondere, perché non ascolto mai sassofonisti! Ho ascoltato tanti sassofonisti che mi hanno fatto innamorare del jazz ma sono almeno 3-4 anni che ho eliminato i dischi dei sassofonisti perché scoprì che mi calamitavano un po’ con la loro personalità. Ho dei punti di riferimento diversi che sicuramente non vengono né dal sax né dal jazz: il mio vero e proprio faro paradossalmente è Bach! Non ho mai avuto un maestro di jazz e l’improvvisazione l’ho imparata sulla strada lanciandomi nelle jam session quando non conoscevo nessuno e nessuno conosceva me ma ancora adesso quando sono a casa mi diletto a seguire le musiche di repertorio di Bach ma anche di Vivaldi, Francesco Durante e altri autori della musica barocca perché nel mio piccolo ho scoperto una cosa molto importante: che più si vuole andare avanti e più bisogna andare indietro e cercare la musica alle sue radici quando il sistema temperato era neonato e quindi c’era ancora tutto da inventarsi. Per me Bach è stato il più grande musicista che sia mai venuto su questa terra!
Oltre che in Italia riscuoti molto successo anche in Giappone, noti differenze tra il pubblico italiano e quello nipponico?
In realtà si, ma dipende dai casi. Tutto il mondo è un po’ paese ma il Giappone ha un tipo di attenzione differente dal nostro nei confronti del jazz. Quando sono andato in tour a Tokio sull’onda del successo di Arriving Soon la cosa che mi lasciava stupito è che sentivo jazz in tutti gli angoli della città: io andavo nel supermercato e sentivo il disco raro di Miles Davis, andavo nel ristorante e sentivo un altro disco che pensavo di avere solo io e altre 20 persone al mondo finché un giorno in un bar non ho sentito anche il mio disco ed è stato strano! La realtà è che in Giappone c’è più attenzione per questo tipo di musica, è una musica che va in televisione, nelle radio, nelle piazze mentre in Italia è vista ancora come una musica elitaria, un po’ di nicchia. In realtà questo non è vero perché il jazz ha un forte potere comunicativo alle masse ed è nato proprio come musica popolare.
Oltre a suonare insegni presso l’Accademia del suono di Milano, che consigli dai ai tuoi allievi quando prendono per la prima volta un sax tra le mani?
Il consiglio che dò è di non suonare il sax, ma la musica, di usare lo strumento come un mezzo per far uscire se stessi. Il rispetto per la tradizione, inoltre, è necessario, ma non bisogna fermarsi lì perché la grandezza di quel musicista jazz era proprio avere la propria personalità: non si ci può limitare a reinterpretare musica improvvisata in un modo già fatto. Io insegno anche a trovare un proprio metodo personale per studiare perché ognuno di loro ha un approccio mentale diverso allo strumento e poi quindi anche pratico. E come la prima volta che mi venne dato in mano un sax alla banda del mio paese, consiglio di giocare con lo strumento, di scoprirlo, e così facendo vi accorgerete che è lui che sta scoprendo voi! La musica è fatta proprio di questo: suoniamo ciò che siamo e siamo ciò che suoniamo. I miei allievi mi ascoltano e son fiero dei ragazzi che studiano con me.
Di tutti i premi ricevuti e i palchi su cui sei salito, qual è stato il momento più emozionante della tua carriera fin’ora?
Martedì all’una ti darei una risposta diversa! Per adesso la prima volta che sono andato in Giappone è stata un’emozione indimenticabile. Avevo 17 anni ed era la mia prima volta all’estero mi sono esibito davanti a migliaia di persone che mi hanno accolto quasi come se io fossi una pop-star: è stata una cosa stranissima! Mentre andavo a fare il concerto mi hanno fermato più persone per strada per chiedermi la foto e cose simili!
Hai iniziato a suonare giovanissimo e già insegnavi musica all’età di soli 15 anni, non ti sei mai sentito sotto pressione?
Si, le prime volte che insegnavo avevo 15 anni mentre i miei allievi ne avevano dai 45 in su: non era facile per me correggerli e fargli notare gli errori. Tutt’oggi molti allievi sono più grandi di me. L’importante è essere se stessi senza voler esagerare e strafare. Coi miei allievi mi metto sempre alla pari, perché la cosa bella dell’insegnamento è che in realtà quello che impara sono io, perché mi arricchisco conoscendo gente diversa, approcci diversi al mio stesso strumento, ma sicuramente le prime volte ero molto intimorito.
E la tua prima volta sul palco?
Avevo paura il triplo! Avevo 12 anni ed era un concerto con una big band. Hanno presentato tutta la big band e poi quando è arrivato il mio turno, hanno puntato un faretto su di me e mi hanno presentato come la mascotte del gruppo. Io ero tranquillo fino a due secondi prima, ma quando mi sono visto il faro puntato contro ero veramente terrorizzato. Credo che debba sempre restare un filo di tensione perché è quella che ti spinge a dare il massimo. Personalmente non sono mai contento di come suono: dipendesse da me cancellerei tutto quello che ho registrato… sono l’eterno insoddisfatto da questo punto di vista! Se mi dicono che va bene mi tranquillizzo, ma credo che la tensione e l’autocritica siano elementi importanti altrimenti senza i quali non sarebbe possibile migliorarsi e se così fosse non avrebbe senso continuare a suonare.
Come ti vedi a trent’anni?
Spero di mantenere la gioventù nello spirito grazie alla musica come alcuni musicisti molto più grandi di me, che hanno 70-80 anni. A trent’anni magari no ma comunque spero che nel cammino della mia vita mi accompagni sempre questa gioventù di spirito e di pensiero poi se fisicamente ne dimostrerò di più non mi interessa. Io vivo molto alla giornata quindi non voglio fare troppi programmi sul futuro e non ho voglia di bruciare le tappe. La cosa importante è essere circondato e supportato da persone che ti vogliono bene come i miei genitori accettare che non smetterò mai di ringraziare.
Giuditta Danzi
Giuditta Danzi, Intervista, jazz, martelive, martemagazine, Mattia Cigalini, musica