Best Major Festival: l’Heineken Open’er Festival
2 LUGLIO
Il terzo giorno è il giorno di Prince e arrivano moltitudini di giovani armati di magliette con lustrini e bandiere inneggianti il principe internazionale. A lui è dedicato anche più tempo per l’esibizione non essendoci il solito concerto che comincia a mezzanotte al Main Stage. Noi invece siamo lì prima per i Primus che tornano a suonare insieme nella formazione originaria dopo anni di silenzio. Alle 20 (sono puntualissimi qui) comincia il loro momento dopo il concerto dei t.b.a..
Sono stati in Italia quest’anno per la prima volta, dopo 20 anni di carriera esorbitante e 12 anni dall’ultimo disco, Antipop, mentre si attende quello in arrivo per settembre 2011, Green Naugahyde. Mentre sul palco ci sono due enormi astronauti-pupazzo, loro cominciano a suonare “Here Come The Bastards” con quella splendida psichedelia musicale, una volta definita “When Frank Zappa meets metal”. Alla fine molti gridano “Primus sucks!”, ma non è un’offesa: è il loro motto. Les Claypool parte in modo contenuto, serio e senza salutare ma alla fine del primo pezzo esordisce dicendo che trova fantastico essere per la prima volta prima di Prince (nei negozi di dischi c’è sempre prima Prince!). Poi comincia a snodarsi in lunghi, orgasmici, assoli da togliere il fiato. Saltella per il palco e canta con quel fare da pazzoide intellettuale che gli dà un particolarissimo charme. Alla batteria torna Jay Lane e torna di nuovo – finalmente – l’approccio originario della band. Resta facile per Larry Lalonde, alla chitarra, contribuire a creare qualcosa di unico. Voce psicotica, ritmiche ipnotiche, trascinanti e deraglianti. Uno spettacolo. Specie quando Les imbraccia il suo basso fretless Thompson e articola giri mirabolanti in “My name is Mud” (unica testimonianza nella performance di Pork Soda del 1993) o quando parte l’assolo con il suo whamola indossando una maschera da maiale. Totalmente assenti i brani di Antipop, ma tanto spazio ai pezzi di Frizzle Fry (“Pudding Time”, “Groundhog’s Day”, “John The Fisherman”) e alle nuove canzoni, sulla stessa linea d’onda di quest’ultimo, quali “The Eyes of the Squirrel”, “Lee Van Cleef”, “Tragedy’s A Comin’”, “Jilly’s on Smack” e “The Green Ranger”. E mentre tanti fanno crowd surfing, le visiere degli astronauti si accendono come televisioni e cominciano a trasmettere immagini con il faccione dell’ex presidente statunitense Bush jr. e la conclusione è affidata alle due celebri, “Jerry was a Race Car Driver” e “Tommy the Cat”. Ovviamente buttando nel mezzo di quest’ultima l’assolo di “The Awakening” (cover dei Reddings). Un live con cui anche chi non conosceva Les capisce che è uno dei più eccelsi bassisti della storia.
Arriva poi il momento di Prince, regale come non mai, vestito con un completino di pajettes radioattive che restano a illuminare l’eccelso anche con tutte le luci spente. Altezzoso e pomposo, dopo aver aperto in grande stile suonando “Laydown”, dice “Gente sono qui. Sono così felice per voi”, che sembra una cosa carina, in realtà a me è suonato più come auto adulazione ma mi sbaglierò sicuramente… Intanto lui ripercorre in due ore tutta la sua vastissima carriera musicale: sfoglia con un’abilità eccezionale, da vero animale da palco qual è, “Sign O’ The Times” e “Sometimes it snows in April” (da dischi dell’1987 e del 1986), la celebre “Purple Rain” del 1982 e ben tre brani del disco 1999: “Little Red Corvette”, “Delirious” e “1999”. E ancora “Let’s Go Crazy”, “Controversity”, “Take Me With U”. Nelle pause si ferma, alza le braccia al cielo, mento alzato, posa plastica e si gode gli immensi applausi del pubblico. E’ decisamente il concerto con più affluenza. Con l’aiuto di Shelby J. e Liv Warfield da vita a numerosissime cover (di cui è composta quasi la metà del concerto): “Crimson & Clover” (di Tommy James & The Shondells), “Waiting in Vain” (di Bob Marley), “Le Freak” (degli Chic).
Esce e risale sul palco almeno quattro volte, la prima volta torna per cantare una cover di Micheal Jackson, “Don’t Stop ‘Til You Get Enough” e una dei The Time “Cool”; la seconda volta ritorna per “Dance” (cover di Sylvester) e “Baby I’m a Star”. Uscita di scena, ancora, e ritorno per altre cover dei The Time (“The Bird”, “Jungle Love”), una di Sheila E. (“Love Bizarre”). Ultima (ultima?!) uscita e ultimo ritorno per suonare “Love Rollercoaster” (degli Ohio Players) e “Play That Funky Music” (di Wild Cherry) per poi lasciare la conclusione a “We Live, We Get Funky”.
E, appena finito questo momento “brillante”, approfittando del fervore della fetta più grande del pubblico dell’Open’er Festival, sale sul palco l’organizzatore Mikołaj Ziółkowski per ricordare che c’è da festeggiare i 10 anni di Open’er. Dopo il conto alla rovescia partono così 20 minuti di fuochi d’artificio, le foto delle edizioni passate e la torta, ovviamente, divisa anche con il pubblico (solo alle prime file, ahinoi).
Andando via da Prince ci si imbatte in una bella atmosfera, quella all’Alter Space in cui si sta esibendo una capace formazione jazz polacca, i Niechęc che in una performance fatta soprattutto di improvvisazione riesce a dare quella giusta carica per tornare a vedere che succede sugli altri palchi. Sotto il tendone del Tent Stage, infatti, si sono alternati gli illuminanti The Asteroids Galaxy Tour, cui hanno fatto seguito Kate Nash e Kim Nowak e si stanno esibendo ora i Chapel Club che tradiscono di molto le aspettative con una performance noiosa che non è stata in grado di suscitare la purché minima emozione.
Emiliana Pistillo
Emiliana Pistillo, Gydnia, Heineken Open'er Festival, martelive, martemagazine, musica, Notizie