Best Major Festival: l’Heineken Open’er Festival
30 GIUGNO
Il primo giorno di un festival, almeno per i comuni mortali, è sempre un po’ di assestamento. Dopo aver capito chi siamo e dove ci troviamo, una passeggiata tra la miriade di spazi allestiti dall’organizzazione, da sponsor e da Ong che hanno aderito, e ogni sorta di stand che va da giochi elettronici e non, zone wifi e per installare applicazioni del festival sui cellulari, tendoni per sfilate di moda e bancarelle d’artigianato, gastronomia e chi più ne ha più ne metta… Scelgo di cominciare in musica dal Main Stage, grandissimo, dove i concerti erano già cominciati alle 18 con un gruppo polacco, i Pustki.
Le persone sono già in attesa dei The National. Quando cominciano a suonare ammettono di essere un po’ abbattuti dalla stanchezza, ma si riprenderanno. E infatti lo fanno in crescendo, passando da pezzi più melodici ad altri che crescono verso ritmiche più serrate. Suonano soprattutto brani dell’ultimo disco High Violet (che la rivista britannica “Q” definì il disco dell’anno) come “Anyone’s Ghost”, “Afraid of Everyone”, “England”, ma anche pezzi del passato come “Squallor Victoria”, “Slow Show” e “Fake Empire” da Boxer del 2007. Fino a risalire verso il 2005 di Alligator con una splendida “Abel”. Si presentano con una formazione arricchita da tromba e trombone e, nonostante la premessa, danno vita ad uno spettacolo che entusiasma, apostrofato dalla tipica struttura dei loro brani in cui gli inizi lenti e struggenti giocano a sfoderare poi finali sempre più fervidi e deliranti. A proposito di delirio, gli ultimi 15 minuti di concerto sono stati da ricovero. In questo frangente ad eccitare il pubblico dell’Open’er la grande foga del baritono Matt Berninger che, durante “Terrible Love” si butta nella folla, prima stando alzato sulla ringhiera di sicurezza, facendosi tenere una mano da qualcuno del pubblico sotto, e poi immergendosi letteralmente col suo barbone tra di loro, sfidando gli uomini della security (nel panico), ma soprattutto la lunghezza del filo del microfono. Cosa che nessun’altro oserà fare. Beh sì, l’attimo di stanchezza era decisamente passato. Performance che resterà sicuramente tra le migliori del festival.
Tutti ai posti di combattimento, attaccati ancora alle transenne per aspettare i Coldplay, headliner di questa decima edizione. Una musichetta tipo Star Trek richiama tutti quelli che si sono allontanati dal palco. Arrivano frotte e frotte di ragazzi, un grande gruppo in movimento che si aggiunge da tutti i lati. Ed eccolì lì i Coldplay, tra fuochi d’artificio, per la prima volta in Polonia e visibilmente stupiti da un pubblico così caldo. Tanto che Chris Martin deve sottolinearlo chiedendosi perché il loro manager li aveva tenuti per tutto quel tempo lontani dal pubblico polacco. Ma forse la realtà è che i tempi d’oro dei Coldplay sono finiti e il bisogno di creare aspettative per il nuovo disco deve contaminare quante più nazioni possibili.
Un’ora e mezza di concerto in cui Chris si dimena, salta, rimbalza da una parte all’altra del palco tra i colori vivacissimi della nuova anima della band. Ad attirare l’attenzione sono infatti strumenti dipinti, scarabocchiati e colorati, in finto invecchiato, con tinte fosforescenti o le più vivaci possibili. E così al pianoforte sembra mancare qualche pezzo di legno dai tasti, senza coperchio avanti, come se fosse spuntato direttamente dal magazzino degli strumenti vecchi del Festival di Woodstock. Chissà se c’entra qualcosa la teoria di Corrado Minervini, autore di “Coldplay, Life is for Living. Testi e commenti”, che definisce come una sorta di evoluzione – e propriamente di uscita dalla timidezza del leader del gruppo – quel passaggio dai colori cupi e monocromatici dei primi dischi (Parachutes, A Rush of Blood to the Head, X&Y) all’esplosione di colori in Viva la Vida? Un discorso che vale soprattutto per le copertine degli ultimi singoli usciti.
“Grazie per averci aspettato” dice Chris e presenta anche qui i nuovi singoli: “This is our new song, I hope you like it” ma non aggiunge, come all’Heineken Jammin Festival nostrano quell’”if you don’t fuck you”. Sì, il tempo della timidezza dev’essere proprio passato! Comincia infatti con l’adrenalina di “Hurts like Heaver” tra laser colorati e fuochi d’artificio, poi “Yellow”, cadono coriandoli colorati su “In My Place” leggermente deformata dal tempo. Smette di saltellare da una parte all’altra per suonare un’altra novità, “Major Minus”, in cui è impegnato tra chitarra e dubbi falsetti. Poi è il turno di “Lost!” in cui apre le braccia e gira per tutto il tempo come un forsennato.
Non mancano lunghi e lenti assoli al pianoforte (con qualche evidente errore) e alla chitarra. Si ripercorrono tutti i maggiori successi. Pianoforte e profonde luci rosse per “The Scientist”, poi “Shiver”, a batteria battente “Violet Hill”, chitarra per Chris che va a tirare un calcio al grande ventilatore alle loro spalle e attimo di furia incandescente tra le chitarre di Johnny Buckland e Guy Berryman.
Il frontman attacca, poi, una versione acustica di “God Put a Smile Upon Your Face” non proprio gradita da tutti ma che per fortuna si ritrasforma in quella originale dopo un “Ok, let’s go” e comincia la sua versione molto più piacevolmente elettrica. A solo mezz’ora dall’inizio del concerto la temperatura è altissima.
Altri due nuovi pezzi in due ballate una da pianoforte, con qualche nuovo lamento melodico fatto di “oh oh yeah” in “Everything is Not Lost” e una da chitarra e dalla grande carica emotiva, “Us Against the World”. Il palco riprende energia con “Politik”, ancora più martellante per delle luci accecanti. “Viva la Vida” al pianoforte e tutti partono con l’”ohh ohh” (quello che sarà il tormentone al camping per tutta la notte!) e il batterista ricomincia a martellare passando alla grande carica energica di “Charlie Brown”, altra new entry, e stopparsi con la calma di “Life is for Living”. Uscita di scena e bis di chiusura nel rossore generale con l’intemperanza di “Clocks”; organo, dolcezza e luci dei cellulari per “Fix you” e finale col botto con la tanto discussa “Every Teardrop is a Waterfall”. Una scaletta che cambia, rispetto alla performance italiana, solo per l’assenza di “Cementaries of London”.
In contemporanea su un altro palco, al Tent Stage, si sta esibendo Paolo Nutini a cui seguirà l’elettronica psichedelica dell’eclettico Caribou, mentre al World Stage tocca al dub soul reggaeggiante dei neozelandesi Fat Freddy’s Drop.
Emiliana Pistillo
Emiliana Pistillo, Gydnia, Heineken Open'er Festival, martelive, martemagazine, musica, Notizie