A pezzi, troppi…
[ARTI VISIVE]
Uno spettatore, giovane studioso di teatro coi capelli da rasta, è andato via sconvolto, dopo lo spettacolo A pezzi. Una coppia matura si è allontanata dicendosi “soddisfatta”; altri pare abbiano significativamente com-mentato: “C’è un sacco di roba, qua dentro”.
Significativamente, perché in questo spettacolo di video-teatro di Salvatore Insana con Elisa Turco Liveri, già presentato a Milano e a Napoli in forme più asciutte e ridotte con un buon risultato di pubblico e critica, ed ora al Meta-Teatro di via Natale del Grande 21 dal 18 al 21 maggio 2011, c’è molta roba non solo per quanto riguarda i riferimenti culturali impliciti, ma anche pensando alle componenti del corpo umano, su cui la pièce multimediale si interroga. In effetti il nostro involucro è composto forse da sin troppi elementi da coordinare, e probabilmente per questo ama somatizzare un mucchio di morbi autentici e buriane fittizie, e ciò è sorprendente perché quanto a zampette siamo ancora molto limitati rispetto ad un insetto kafkiano, mentre anche come testa, che i nostri osservatori extraterrestri nell’anonimato a volte amano definire “capoccella”, non siamo certo dei capoccioni, tant’è vero che di quello che essa contiene siamo abituati ad usare, per pigrizia congenita, solo il 10% circa, che già ci procura notevoli fastidi, infatti come si fa a calcolare una percentuale su un totale inconoscibile, quanto a livello di prestazioni?, e poi c’è chi dice che con l’utilizzo già solo del 20-30% del cervello (cosa piuttosto improbabile, pare) tutto l’ossigeno immagazzinato nei polmoni attraverso l’inspirazione andrebbe al cervello con conseguenti infarti e ictus, ma questo forse non dovrei provare a stabilirlo proprio io, che scrivo in questa maniera!
Ad ogni modo, è evidente che quando funziona un pezzo, l’altro spesso per dispetto si ribella, e A pezzi è una pièce multimediale che intende rappresentare in via sperimentale proprio l’aspetto residuale di quella presunta unità, usata spesso a proposito della società, come metafora organicistica, che nei momenti di crisi appare invece così forzata già solo in relazione alla nostra “macchina” imperfetta.
Quando dal buio assoluto del palco del Meta-Teatro emergono le facciate interne, schermi, della scatola cranica teatrale in cui si proiettano teste scassate di bambola, abbiamo netta la sensazione di come dobbiamo pensarci quando ci sentiamo sconquassati, sconnessi, desincronizzati, quando i nostri arti continuano a sbrigare le incombenze del quotidiano formicolando in una assurda taranta meccanica, allusione al movimento corporeo come permutazione matematica (Beckett), mentre la nostra testa deraglia su binari morti, oppure doppi, tripli, ma singhiozzanti, che invece di moltiplicare i nostri sforzi li rendono ridicoli, come ragli di somaro verso il lume lunare di una ragione oscurata dalle nubi di un vano determinismo.
La stessa Elisa Turco Liveri, di norma creatura non certo priva di fascino, degna compagna del suo inquieto pigmalione, e tuttavia animale pensante da palcoscenico, qui appare gommosa come una pupazza in balìa di un burrattinaio crudele: le sue membra, da quando lei fuoriesce dal box che esprime la clausura nella tana nichilista, si muovono a compartimenti stagni, a voler dar segno della conquista di una loro reale separatezza dell’”insieme” impostore, nella sfacciata professione di un’autonomia che invece è suicida, un’autarchia automatica, da automa (figura chiave del perturbante freudiano), ribellione dadaista di quegli oggetti che oscuramente sentiamo di non poter conoscere davvero con la nostra fragile soggettività. Se anche i piedi, le gambe, il tronco, le mani di Elisa vogliono farsi intendere come oggetti animati dotati di una volontà propria che però non sa come e dove indirizzarsi, ecco che lo spazio scenico diventa la palestra di una solipsistica claustrofobia degli impulsi, riflesso condizionato pavloviano slegato dai tendini come da ogni disegno teleologico, e camminare all’indietro sui mattoni è solo una sfida puntigliosa all’”equilibrio” in tutti i sensi, così come l’abilità manuale dimostrata nel costruire una struttura coi suddetti mattoni si risolve in un montaggio e smontaggio tanto frenetico quanto destrutturante, nel senso che a furia di analizzare in senso strutturalista, l’uomo o la donna in carne ed ossa si snoda, il tutto mentre le immagini create da Insana producevano nella black box del teatro, centralina sinottica del mondo fenomenico chiusa dalla terza parete degli occhi, rivolti all’interno della meta-interiorità, degli spettatori, un blocco ossessionante in movimento di funerea crudeltà sadiana in versione giocattolaia, di cui le sequenze esplicative del fabbricante di bambole apparivano come delle schegge rea-listiche perse in un delirio tautologico da marionetta.
C’è forse una macchinazione sotterranea che ci vede nemici di noi stessi, incapaci di cogliere, con la coscienza predicatrice nel deserto d’un corpo sordo, i significati di quei fili sottesi con cui il nostro lato oscuro improvvisamente manovra i nostri pezzi come pedine di una scacchiera beckettiana in cui la posta in palio è lo scongiuramento del rischio di corto circuito tra atto e potenza. Il pensiero perde il valore di guida mantenendo un dominio sterile; l’azione sembra poter distrarre dai loop insensati della mente ma non porta a nulla se non a ostentazione disorganica di facoltà inutili: il tutto è più della somma delle singole parti e proprio per quello non funziona. E allora risvegliare l’idea poetica di una fragilità che minaccia la nostra presunzione di esseri privilegiati e ripristinare come nell’arte informale, la dimensione oggettuale dell’esistenza, sembra l’obiettivo (ri)costruttivo centrato da questo lavoro, che reintegra nelle menti superomistiche del terzo millennio l’idea dello straniamento come agguato costante dell’illogico, proprio mentre ci mostra A pezzi.
E insistiamo, tanto per mostrare la scoordinazione indotta causata dallo show: con le sovrimpressioni foto-grafiche tra i loro volti e le teste spaccate di bambola, a corollario dello spettacolo, l’autore e la performer si consegnano ad un comune destino di finzione destrutturante, volta programmaticamente ad una compene-trazione più profonda: la Liveri sulla scena, non avendo la padronanza di un intestino che garantisca al cer-vello le frequenze provenienti dalla trasformazione del cibo, divora cilindri di Manzotin con un ritmo indu-striale accelerato, mentre sicuramente nello stesso momento Insana se la fagocita con i suoi superocchi da uomo con la macchina da presa (Dziga Vertov), regista ex machina tuttavia incombente perché deforma il testo con un audio distorto, in sudditanza rispetto alla resa visiva, come ad indicare uno scollamento anche tra logos e rappresentazione, mentre la volontà è fuori gioco da… un pezzo.
Comunque le bambole “mobili” già dal tempo di Durer esprimono anche una repressione dell’attrazione erotica, e l’autospupazzamento oltre che una sublimazione di un desiderio castrato dall’inceppo oggettivo è un espediente che muove a perver-sione il burrattinaio: la sparizione finale della bambola sancisce anche l’estenuazione della libido del mentore della bambola rotta, che si scopre impotente senza la sua schiava che pur tanto inabile sembrava e la svalutazione di sé è l’autoritorsione della rabbia verso la bambola rotta. Ma queste sono considerazioni che obbediscono alla straziante convenzione di dover comunicare un senso malgrado non ci ci sia nulla da dire, soprattutto su un’opera sull’entropia fisico-psichica, in cui i molteplici livelli di significato creano accumulo solo nella forma di un celato gioco ad incastro incatramato, come sosteneva Beckett con altre parole, pertanto questa non autorizzata ricomposizione concettuale non è che un’affabulazione che si sforza paradossalmente di dar senso ad un’esperienza teatrale concepita proprio per smontare l’unitarietà di percezione, significazione e reazione. “E’ sempre la testa a rompersi per prima”, sostiene Insana, il cui cognome sembra dispettosamente volersi riferire proprio alla testa, non la sua, ma quella con cui il corpo gioca come fa la Liveri, che nel momento supremo della vertigine fatale, se ne appende addosso parecchie, appese a fili che sono le relazioni con gli altri, e, dato che le percepisce tutte come staccate dal corpo, gira-do su se stessa le fa roteare, come “mine vaganti, pezzi vacanti, parti mancanti” che però si attraggono tra loro magneticamente come a voler stabilire una rete di follie rizomatiche, in un’”empatia tra umano e non umano” in cui, per quanto disarticolati e afunzionali, noi ci riconosciamo sempre come umani mentre gli altri sono inumani, esseri insensati le cui idee non hanno “corpo” eppure ci creano inciampi come alla fine dello spettacolo, i “rottami del mutilato giocattolo”, che ha fatto da “esca dal vivo”, pur essendo tecnicamente morto, per delle immagini che gli hanno dato da pensare spingendo come al solito la testa “a spegnersi per ultima”.
Anche l’articolazione del linguaggio scenico appare compiuta ma non risolta, in un “manuale di anatomia distorta” in cui il corpo, luogo caldo, ed il linguaggio video, medium freddo, ricevono una illuminazione giustamente assai poco rivelatrice dal disegno luminotecnico di Giovanna Bellini, mentre l’avara altezzosità della voce guida è, come detto, sull’orlo del collasso, distorta fonicamente dalle diramazioni sensorie del corpo che generosamente si fa e si disfa senza costrutto. Salvatore Insana ha elaborato il testo finale partendo oltre che da riflessioni personali, anche da una silloge di spunti derivati da diversi autori, giungendo ad un concentrato estraniante di input che si è purificato solo in virtù di una crudeltà artaudiana, cioè come sacrificio di qualunque elemento non concordante al fine della rappresentazione: il testo, così come la testa, non è riuscito in questo caso ad esercitare compiutamente la sua forma di tirannia sullo spettacolo, ed in sua vece lo spirito di teatro integrale è riuscito a comprendere e mettere sullo stesso piano, sia pur sconnesso, tutte le forme di linguaggio impiegate, magari non utilizzate “attraverso tormenti dell’anima e del corpo” (Artaud) ma strumenti di una immedesimazione sperimentale con le alterazioni delle “teste decollate”, prima e “dopo il ravvedimento”, con la consapevolezza che “L’ordine è un gioco di potere, ed agisce tagliando le teste”, rendendoci “un plagio di qualcosa che non conosciamo più, l’identità originale, dispersa” (Insana).
Di Roland Barthes viene catturato uno spunto sul riconoscimento dell’”altra” in una relazione di coppia: “Mi sfuggiva interamente… La riconoscevo sempre e solo a pezzi… E’ quasi lei, più straziante che dire non è affatto lei”, occasionale ipocrisia di quel pezzo della coscienza maschile che si manifestò, ci permettiamo di aggiungere noi, ne: “La bambola” di Hans Bellmer, un manichino snodato sulle sue articolazioni con giunti a sfera che riassumevano l’immagine surrealista come “vittima stupenda”. Ma, al di fuori e prima di ogni ostilità sessuale figlia di un’adorazione deviata, c’è la necessità di manifestare anche solo un passo “per dirsi presenti… per non giudicarsi mancanti” (Philippe Petit, funambolo); trovato nella vita un punto d’appoggio, “l’immobilità sarà lì, pronta all’appuntamento” e nel passo successivo, supposto sicuro, si avrà la caduta, perché una gamba è possibile che voglia “staccarsi dal mio corpo geloso che da decine d’anni la teneva al guinzaglio dell’inguine”. Resterà “l’altra, più rassegnata, più tonta”, dissimulazione incauta del soppesamento dei rapporti di forza tra persone, come un oscillare da una all’altra gamba, finché una tradisce.
Non potendo fuggire da se stessi, vista l’asimmetria tra le gambe, le braccia “estremità smisurate”, faranno “corpo col tronco” facendo da “esempio a chi non si scompone mai”; meglio “farsi scomposti”, però, che “dirsi decomposti”. Ma “quante ne inventano le bambole, modello di femminilità, di menzogna e di sotterfugio, d’incalcolabile oscuro dinamismo: le mani quindi strangoleranno la testa, e avranno la “fierezza scema” di aver ubbidito ad un comando così difficile” (Guido Ceronetti).
Per quanto riguarda il rapporto col cibo e l’oralità, Insana ha sfruttato frammenti di Valère Novarina, autore francese che in alcune opere teatrali ha chiesto agli attori di cibarsi di loro stessi, della parola, «nostra carne mentale». Della testa in generale possiamo riassumere: “In sé non è niente, dipende tutto da quello che le va dentro e fuori… ma che nessuno si metta in testa di poter sostituire un braccio con una gamba o ancora un naso con una bocca” (Insana), non può dissociarsi dal corpo sociale né permettere che non la giudichino indipendente nel pensiero, va incastrata “…tra il mondo e l’Io. Ma non si faccia incastrare!” E allora, nel “testa a testa tra testa e corpo” (Insana), il video-ambiente scenico crea il campo per una partita aperta tra il dare e l’avere dei linguaggi, tra il dentro e il fuori del pensiero, tra attività scenica e recettività spettatoriale (interattività), mentre la “calda” corporeità, pur gommosa, della performer sbilancia ad arte il setting verso l’ipertrofia del canale percettivo voyerista. Dopo il lungo peregrinare epilettico alla ricerca del collegamento sinaptico coi pezzi del pazzo puzzle, come la Liveri che salta da una parete all’altra cercando la connessione con la proiezione illusoria, video, delle sue varie sparpagliate membra, “Per finire, ancora cranio solo, nel buio luo-go chiuso… rigido in piedi in mezzo alle sue rovine” (Beckett), nel (video-)teatro.
il7 – Marco Settembre
A Pezzi, arti visive, Elisa Turco Liveri, marco Settembre, martelive, martemagazine, Salvatore Insana, Troppi