Metti una sera in un cimitero
[TEATRO]
MILANO- Frutto di una collaborazione che ha portato lo spettacolo ronconiano Giusto la fine del mondo al Thèatre de la Ville di Parigi, Rêve d’automne (Sogno d’Autunno), del regista Patrice Chèreau, sbarca a Milano al Piccolo Teatro.
Lo spettacolo, francese in quasi tutti i suoi elementi fondamentali (infatti è sovratitolato in italiano), è frutto di un testo norvegese, opera dello scrittore e drammaturgo Jon Fosse, vincitore nel 2010 del prestigioso premio Ibsen. La piéce può vantare una prima d’eccezione Oltralpe, dato che ha debuttato nella sala Denon del Louvre, ossia una delle tre ali principali del celebre museo parigino. Tale ambientazione colpì a tal punto il regista da convincerlo a riprodurre questa sala in teatro, nonostante il testo originale fosse ambientato in un cimitero vicino al mare. E’ lo stesso Chèreau a spiegare i motivi di questa scelta scenografica: ”Un museo o un cimitero? I musei sono case che ospitano pensieri, ci dice Proust. La vita, la folle passione e il desiderio che si schiantano frontalmente con l’oscena irruzione delle sepolture, con le generazioni che si susseguono e scompaiono, con la morte che riguadagna i propri diritti e finisce per vincere”. E in fondo, cos’è un museo se non un luogo della memoria al pari di un cimitero? Due luoghi punteggiati di date e nomi spesso sconosciuti, dove solo alcuni personaggi si ergono dal baratro dell’anonimato.
Ed è proprio in questa particolare ambientazione che si apre la scena: in una grande sala dalle pareti rosse si incontrano un uomo (un bravo Pascal Greggory) e una donna (Valeria Bruni-Tedeschi). Ma questo non è il loro primo incontro: un tempo, infatti, i due erano stati amanti. Allo stupore iniziale di rivedersi, subentrano pian piano i ricordi oramai sbiaditi, le recriminazioni su ciò che doveva essere e poi non è stato. Lui ha ormai una moglie e un figlio; lei, invece, è sola e spaventata. I loro sentimenti non sono chiari: si sono mancati, questo lo si intuisce, ma nessuno dei due sembra aver chiaro il da farsi, in particolare lui, teso com’è tra doveri familiari e piaceri che riemergono dal suo passato. Alla fine però sembra che l’Uomo prenda una decisione le cui conseguenze saranno chiare di lì a poco. Si apre così una nuova dimensione grazie ad un salto temporale che sfuma tutto. Arrivano i genitori dell’uomo (Bulle Ogier e Bernard Verley) e dai loro discorsi si comprende che il suo matrimonio è giunto al capolinea, che alla fine ha prevalso il piacere sul dovere. La sua nuova compagna viene stordita da un fiume di confessioni, a tratti imbarazzanti, della madre dell’uomo, ricordi che sfociano poi in un diverbio tra l’anziana donna e il figlio oramai grande, anche se considerato, in fondo, ancora un bambino. Ma i salti temporali non sono ancora terminati: la storia, come la vita dei protagonisti, prosegue, con le sue tragedie e i suoi problemi, fino all’inesorabile epilogo.
Venendo al testo, Rêve d’automne è sicuramente una pièce capace di indurre anche lo spettatore più insensibile a porsi qualche domanda: l’amore può essere eterno? Esiste un momento in cui ci si accontenta perché stanchi di cercare? Ci vuole più coraggio a cambiare o a preservare lo status quo? Che senso ha mettere al mondo dei figli se poi si decide di abbandonarli? Tutte questioni di non facile soluzione e che prima o poi “bussano” alla porta di tutti noi. Tutte questioni riconducibili ai sentimenti, quei convitati di pietra che aleggiano in scena ad ogni scambio di battute tra i personaggi che vagano per il museo/cimitero. Non è quindi un caso se il protagonista affermi, prima di capitolare, di odiare i sentimenti. Sono loro la causa delle sofferenze e degli errori degli esseri umani, ma sono sempre loro gli artefici delle gioie più grandi. Ma se tutto ciò è vero, è saggio farsi guidare dai sentimenti? A giudicare dall’evoluzione della pièce sembrerebbe di no: i due protagonisti, pur essendo tornati insieme, appaiono sempre più sbiaditi nel trascorrere del tempo. Tempo che inesorabilmente giunge al suo termine perché in fondo, in un mondo in cui i sentimenti sono talmente complessi da risultare indecifrabili, l’unica soluzione reale a tutti gli affanni, sembra essere la morte.
Per quanto riguarda la regia, Patrice Chéreau, riesce a creare un’atmosfera quasi onirica, a metà strada tra sogno e realtà, grazie ad una narrazione priva di precisi stacchi temporali, che inizialmente lascia spiazzati. A ciò va aggiunta la scelta di collocare sullo stesso piano scenico vivi e morti, passato e presente, in un gioco di sponda in cui ogni personaggio rafforza la presenza dell’altro. A supportare la narrazione, una splendida scenografia allestita da Richard Peduzzi, capace di ricreare perfettamente alcune sale del Louvre che, per la loro vastità, contribuiscono a rafforzare la tragicità della vicenda in scena. Ultimi, ma non ultimi gli attori: un cast all’altezza del testo, tra cui spicca la perfetta alchimia tra i due protagonisti principali, capaci di portare in scena una coppia sempre sull’orlo di una crisi di nervi.
Christian Auricchio
Christian Auricchio, Jon Fosse, martelive, martemagazine, teatro, Thèatre de la Ville