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Amplifier_ The Octopus

AMPLIFIER

AMPLIFIERSe è vero che non basta una vita per assaporare tutto quello che la vita ti da in dono, qui bastano 120 minuti per assaporare e bere libidine “o the rocks” di tutto quello che la musica ha gia messo in circolazione negli anni passati. Mettete questo juke-box, questo oggetto di quiete a zeppa tra generazioni vissute e sogni in technicolor e dite “goodbye terra”…

Battiamo le mani, l’opus è ultimato ed i quattro anni ci hanno fatto attendere gli Amplifier in quel di Manchester si fanno perdonare subito per il mastodontico The Octopus, double work come la migliore tradizione anni settanta imponeva, sedici pezzi divisi in due “Part” con dentro tutta la “criminalità” stilistica del grande rock, corredata di impronte,sudorazioni, Dna e tracce ematiche; la band inglese non si risparmia in nulla, gestisce una Treccani sonora che tratteggia un assunto inattaccabile, ovvero l’appeal di un filo a piombo che fa gioco tra uno stato di veglia vigile e uno di coma profondo, inferno e paradiso in offerta speciale.
Con il sangue pisto del grunge che Belamir e soci hanno ancora nelle vene sclerotiche, il disco ti strappa in un viaggio acuminato attraverso le ansie e le “gioconderie” accurate che, gli amplificatori da un verso e le dolcinerie dall’altro, ne hanno fatto poi la carta d’indentità a divinis del suono alternativo per antonomasia, e che in questo doppio capolavoro di delirio, ti danno il movente e la giustificazione sacra del perché poi di tanti “efferati omicidi d’anima”.

Forti della propria Label Amcorp, il trio è “colpevole” di non essere mai sceso a compromessi con l’industria main, ha sempre scelto per sè il passo della gamba, e questo “caratteraccio” li ha portati ad essere faro tra le generazioni indie e l’alternative dell’underground, che ora con questo nuovo disco hanno un’ara in più dove sacrificare i loro ideogrammi sonori per un’ispirazione dall’alto.
Non facciamo caso se è un disco diviso in due parti o due dischi raggruppati in uno, è solamente un bel trip, una fenomenale darkstar, una luna che ti avvelena di grunge, acido molecolare Tool “The wave”, si nuota nelle assenze amniotiche Floydiane “The runner”, ci si taglia la pelle con il buio seghettato dei Porcupine Tree “White horses at sea”, “Trading dark matter in stock exchange”; se poi si fa un salto nell’altra “part” tutto si dilata ancor di più, occorre avvicinarsi al ritmo orientale di “The sick rose”, stupenda poesia di William Blake, impantanarsi nella melma tenace Soundgardeniana “Interstellar”, “The emperor” e cercare punti fissi nell’aria tersa quanto destabilizzante di “Bloodtest” per ritrovare una strada, una scorciatoia comoda per non tornare più a casa, ma rimanere per sempre in circolo dentro il mondo che Sel Belamir, Neil Mahony e Matt Brobin al secolo Amplifier hanno architettato per noi/voi, e se poi si va a sbattere nella ballata  schitarrata acustica alla Jethro Tull “Oscar night//Embryo” ci si dimenticherà anche da dove veniamo.
Un disco che è anche una filosofia epidermica.

TRACKLIST:
Part One:
The runner
Minion’s song
Interglacial spell
The wave
The octopus
Planet of insects
White horses at sea // Utopian daydream
Trading dark matter on the stock exchange
Part Two:
The sick rose
Interstellar
The emperor
Golden ratio
Fall of the empire
Bloodtest
Oscar night // Embryo
Forever and more

Max Sannella

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