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Un’astronave carica di Benni

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[LETTERATURA]

benni1ROMA- Nell’ambito della rassegna il Festival delle Scienze 2011 La fine del Mondo – istruzioni per l’uso, di scena al’Auditorium Parco della Musica di Roma,  lo scorso 21 gennaio abbiamo assisto ad uno spettacolo argutamente faceto e intensamente poetico: L’ultima astronave, di e con Stefano Benni.

Il maestro Umberto Petrin ha accompagnato al piano tenendo il palco alla pari del nostro “Lupo”. Chi meglio di uno scrittore dalla verve pazzoide e visionaria poteva fornirci preziose indicazioni su cosa lanciare in orbita dentro l’ultima astronave che l’uomo sparerà nello spazio?
Sappiamo che il mondo sta per finire, è questione di pochi mesi. Un pool di autorevolissimi scienziati si è riunito a Tokio per decidere cosa lasciare come testimonianza della razza umana, una volta che questa si sarà estinta. Ne sono nate diverse teorie, ma il nostro protagonista è in scena per dare la sua versione che pochissimo ha a che vedere con la scienza, ma moltissima ne ha con la creatività benni2dell’uomo, con i suoi sogni e con l’arte, ritenuta dai cervelloni nipponici il tesoro da trasmettere ai posteri siderali.
Sullo schermo appaiono improbabili ambientazione di uno spazio cartoonesco, che già ci introducono alle (im)possibili argomentazioni benniane. Ripercorriamo una strampalata e al contempo profonda storia dell’arte, che nei secoli ha sempre espresso due pilastri dell’anima: il sorriso e il grido – d’angoscia. Tra questi due estremi si muove l’intero discorso del nostro autore, che riesce sempre a fondere in ogni sua opera, libro o spettacolo che sia, l’allegria fantastica con tematiche più profonde.

L’excursus prende le mosse dai dipinti rupestri delle grotte di Laescaux, dove l’uomo ha lasciato indelebile l’impronta primigenia della creatività. La teoria sulla vera identità dell’autore ci sbalordisce: un mammut pittore che sullo schermo ha le sembianze di Manny  de L’era Glaciale. Inizio scoppiettante, che svela anche il mistero della scomparsa dei dinosauri: il padrone li abbandonò in autostrada nel finesettimana all’insegna del Yes week-end! Che primitivi…
Immancabile la Gioconda, dolce e beffarda, che Leonardo ci lasciò con il mistero del sorriso. Le risposte tutte plausibili sarebbero tante: sorride per il solletico di una pulce, perché sta fregando tutti, essendo in realtà un fornaio campione di calcio fiorentino. Sorride perché è giovane e bella e vuol fare la modella, oppure perché trattiene un grido.
Il grido d’angoscia è invece ben forte nel Giardino delle Delizie di Bosch, un trittico di tentazioni. C’è sempre un po’ di diavolo nel più santo degli artisti.
Las Meninas dello spagnolo Velázquez segnano un momento fondamentale della pittura, perché fingendo di rappresentarle, sovverte tutte le regole codificate. Benni legge una possibile lettera del benni3maestro del grande Diego, in cui viene spronato a dipingere i potenti con tutti i simboli della loro grandezza e con tutti i particolari dei lati oscuri del Potere.
Le Ninfee di Monet sorridono e gridano, perché sospese in un acqua calma e torbida allo stesso tempo.

Van Gogh è di sicuro uno dei migliori rappresentanti di quel grido d’angoscia che l’arte esprime. La poesia d’amore che l’autore ci regala commuove, una canzone dell’amore respinto: “sai dire cento volte al giorno ti voglio bene, ma senza sanguinare”.
Si arriva al finale senza poter capire quando sia avvenuto il mutamento di tono, più raccolto e quasi tragico: Francis Bacon ci rende una realtà che è incubo dal quale è ormai impossibile risvegliarsi.
La continua ricerca dell’uomo attraverso l’arte, dopo tutti i millenni di storia passata, ancora non è arrivata a certezze, vogliamo proprio sapere quando questo lungo cammino finirà? Non vuole lasciarci con una sentenza, il Lupo, e decide di non aprire la lettera in cui gli scienziati giapponesi hanno appuntato la data esatta della fine del mondo.
“Sto ancora cercando” dice Vincent Van Gogh. E noi preferiamo lasciarci così.

Francesca Paolini

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