Il sale, la vecchiarella, l’ottenebrato, la spavalderia
[IL_7 SU…]
Marzio Di Mario dal vivo si impossessa del palco scalzo e fa letteralmente come se fosse a casa sua, dando vita ad un rito cantautorale sbracato nel senso nobile del termine, perché sembra discendere da un’ attitudine performativa a metà tra Franco Califano mentre saccheggia il suo frigo alle 4 di notte, ed Allen Ginzberg quando legge “The Howl” al Festival dei Poeti sulla spiaggia di Castelporziano nel 1979.
D’altronde lui è un’interprete del teatro canzone, che prende di petto come se fosse davvero quella “musica da vivere” con cui il soprano Silvana Cerra l’ha svezzato, ma avendo l’accortezza di renderla contemporanea e duttile intersecandola con l’esistenzialismo alla Aznavour, con diradazioni alla Branduardi, espressionismi post-punk alla Nina Hagen e veracità intense e popolari tipo quelle della Gabriella Ferri. Insomma musica rionale, autoriale anche col supporto dell’elettronica, ma sempre con un’inclinazione alla teatralità che neanche l’integrazione in una band di 7 elementi ha potuto far tacere né tantomeno la collaborazione con un arrangiatore e l’autorizzazione a realizzare cover di prestigio è riuscita a smorzare la sua accorata passionalità, ma anzi l’ha fatta digradare lentamente verso la follia, intesa però come tematica da trattare in brani dedicati ad una dimensione parallela, dove riuscire a finalizzare energie e forme creative altrimenti inconfessabili e frustrate dalla dittatura del reale, che accetta le contraddizioni solo quando fanno comodo.
“La stanza bianca” inizia con un “La la la” iterato di una pupazza bloccata e tesa, forse rinserrata in un cubicolo bianco, poi l’atmosfera, grazie ad un organo sintetico di tono liturgico, diventa adatta ad un vaticanista autoreclusosi in un’ abbazia per stringere contatti con una suora fatale, la voce sparge inquietudini monasteriali, e l’arrangia-mento, arricchito da cori gregoriani in sottofondo, favorisce sfacciatamente il ricamo tastieristico settecen-tesco per occultare le nequizie della monaca di Monza.
“Contrasti” è una recriminazione persa, appoggiata per piangere sulla spalla a spiovente di una fisarmonica intenta a cercare anche lei il motivo per cui arrabbattarsi così: “mi guardi… facile, sai?, subire, arrendersi, prestare il fianco…”, il tono è da chansonnier imparentato col più recente Renato Zero, ma dal vivo il vocione del Di Mario calca con convinzione mettendo l’anima in una drammaticità emozionale da poeta insoddisfatto con il cappotto sgualcito ed i piedi scalzi, se-gni di un’ambiguità esistenzialista capace di mettere in imbarazzo tutto il ConteStaccio! Scherziamo, ma pensiamo che un certo effetto di spaesamento sia ricercato, da parte sua, e l’impressione ci è confermata da “Mantra”, in cui il canto, claustrale più che intimo, ha un’andamento spettrale, lacerato da tagli di tastiera: “E’ come se fosse un mantra questo dolore… spezza i pensieri, però davvero no, non ne puoi fare a meno, la carezza che già cerchi, il sale in una stanza… E’ un mantra, un mantra…”. Il testo è insinuante, ed il dolore sembra sia il compagno inseparabile del protagonista, lo aiuta forse ad espiare chissà che, ma ci viene il sospetto che il sale sia nella stanza ma gli manchi un po’ nella testa, eppure i suoni ben presto infestano le orecchie come fantasmi, e l’andamento ossessivo resta in mente, e non si sa se prestarsi a fare il contro-canto oppure svegliarsi dall’incubo e ”Strappare le lenzuola, un guizzo e scappare…”! Proposta interessante, coraggiosa e assistita da una presenza scenica che per molte Ruby potrebbe essere conturbante.
Gli Allerija, un trio composto da due cantanti chitarristi e da una voce femminile, si sono affibbiati questo nome con facilità, soppesando la loro provenienza e la allegria che riescono ad offrire al loro pubblico snoc-ciolando un repertorio rigorosamente acustico e inframezzato da divertenti introduzioni dei brani che forni-scono ragguagli sulla loro origine, vale a dire su altrettanti episodi di vita vissuta che son valsi da ispirazione. In un caso, se non ricordiamo male, un brano è nato dall’esigenza di suonare “più piano” per evitare le la-mentele di una vecchiarella abitante al piano di sotto, e dall’udito eccezionalmente fine per la sua età, tale da sentire i suoni provenienti dall’appartamento di sopra, ma non tanto raffinato da riconoscerli come musica capace di regalare allegria, ma piuttosto come rumore indistinto e molesto, dal quale la terza età dev’essere protetta a prescindere dalle classifiche di vendita. Il repertorio svaria con leggerezza tra il pop-folk nostrano, il samba e la bossanova, e dopo aver vinto il premio Augusto Daolio nel 2009, hanno “aperto” per i Nomadi nel 2010. L’arpeggio sognante dell’inizio di “Ringrazio il cielo” si scuote ed entra in linea di galleggiamento su un’atmosfera serena e familiare, che ricapitola le gioie di una sana quotidianità di coppia per le quali c’è da ringraziare, e anche per gli errori vissuti insieme, perché son nati da un felice incontro che permette sempre di far pace quando il resto del mondo tace, e “in tutto questo c’è musica”. “Una canzone sottovoce” è proprio il pezzo nato dai rimbrotti della vecchina, ma le condizioni sfavorevoli, leggasi obbligo di cominciare tra degli “shhht”, e gatton-gattoni, non hanno impedito al trio di sollevare il tono in un ritornello fatalista che combatte l’ansia con un ritmo pizzicato tra il cantautorale ed il sudamericano: “Dover interpretare un’altra vita, gridare che è finita la voglia di sognare; dover ricominciare la partita già persa a tavolino un’anno fa, perché questa vita il tempo non lo dà per rivivere i momenti, neanche a farlo da perdenti…”. Ideale complemento di un arpeggio quieto ma sicuro che fa da sostegno ritmico discreto ed efficace, l’assolo è qualcosa di meglio e di più, degno di una elettrica d’autore, mentre l’impasto e la timbrica delle voci danno soddisfazione a chi cerca un sollievo dai polipi dell’angustia. Ora, con l’aggiunta di un contrabbassista turnista d’eccellenza, hanno trovato l’appoggio di una produttrice come Carmen Di Domenico, e stanno vivendo di musica ancora più di quanto facessero prima, tant’è che sono ora in studio a registrare il primo album. La loro commistione degli stili va a creare un territorio vergine in cui la sperimentazione, nei termini del mix di aromi e colori, “con la voce del silenzio può arrivare al mare…”.
Gli Omopatia si propongono con un progressive che andrebbe catalogato secondo il myspace come tera-peutica e di facile ascolto, ed in effetti “Giornata nuova” si sfoglia con un cantato che evita la catalessi nel contemplare le apparenze diafane di una realtà smorta nella sua piattezza, sfarinata in allusioni e illusioni e segretucci sul come guardarsi intorno senza bloccarsi, “Cerco invano parole per non dir depressione… occhi chiusi, spenta visione, sesso senza colore, scarpe larghe con precisione, nonne e mamme in vagone…”, ed il tintinnio iniziale prelude ad un arpeggio carezzevole e giri armonici di chitarra a segnalare mulinelli di polline o fiocchi di neve o ingannevoli ipnotismi di una realtà spiegazzata e inutile: “sono lento, mondo spento; ah, questo sogno prima o dopo finirà…”. La psichedelìa qui si scrolla di dosso l’inebetimento delle “larve strette, poverette”, e lancia infine i suoi gorgheggi liberi, quasi la manifestazione di un’alterazione che per-mette di rintracciare una verità beffarda, un po’ come capitava a Syd Barrett prima che uscisse definiti-vamente dai binari. “Co2” sembra un pezzo jazz fusion, ma ben presto, dopo un intervento del basso, si cambia ritmo e ci si introduce ad un’alienazione classica, col “padrone” in agguato nel testo, e ad una strofa di versi fissi, irrigiditi e divisi in due, tesi a far capolino da una scatola cranica prigioniera di ruoli e costrizioni, una strofa ogni tot schiacciata da un ritornello indie. I testi sono ben confezionati: “Mangio ipotetiche strut-turazioni, senza badare alle complicazioni… rimango gelido senza più amore, ah ma che senso ha? La testa gira, no così non va…” e infatti la chitarra o formicola sillogismi dell’inquietudine o si imbizzarrisce arrotando i molari sulle sei corde. Le atmosfere sono registrate come si conviene ad una band progressive che sa come canalizzare idee e tecnica, la strumentazione è adeguata alle situazioni emotive variegate, e la voce raggiunge anche vette enfatiche come nel pezzo “La vestigia”, una ballad densa e intensa, mentre “Spe-cificare il nome” è invece un brano beffardo con un cantato sincopato-swing e animato da un cinismo (“Che faccia fare con te non so, che gabbia avrai nello zoo!”) legittimato dalla bestialità a piede libero e dai processi rinviati ad libitum, ed alludo naturalmente a quei processi di emancipazione dal brutto che potrebbero farci concentrare tutti sul “culo da ammirare” di “Lisa”, il cui ricordo blueseggiante assume toni epici che già ci impegnano a sufficienza con strofe parlate e con una sofferenza che svetta in torsioni acute di una voce raddoppiata. “Coma” è tinta da una tastiera che simula un’onda elettrica ruvida ma si modella sulle fibrillazioni di una chitarra in contrappunto: “Digerisco parole che non sono mai chiare, provocando dolore, sento un nodo giù in fondo, mangio e bevo nel sonno… Scusa ma non volevo, prima o dopo mi sveglio; ricomincio dal finale, alla fine resto uguale…” Anche qui il cantato è paranoide, ma quanto mai appro-priatamente, per-ché anche ogni sforzo sembra vano: “è difficile pensare, ed il domani rimarrà dov’è”, si ascolta nel bridge, e l’andamento diventa più nevrotico nell’ultimo terzo del brano, strumentale, quasi a seguire l’avvitarsi della disperazione in un buio vischioso. “Nero” ha una fase centrale heavy blues, poi funkeggiante, poi progres-sive, ancora, grazie al ritmo e alla testiera, sulla scorta dei Pink Floyd della seconda era, ma la citazione è solo una scheggia in una struttura composita, che termina con un arpeggio doppio e malinconico su cui una voce femminile legge in francese forse alcune pagine del diario di un ottenebrato dal non-colore. Il brano che porta lo stesso nome del gruppo, “Omopatia” è un’ipnotica divagazione strumentale verso l’ignoto, che poi si dibatte in incastri magniloquenti in cui le sonorità drammatiche non trovano difficoltà tecniche nell’alternare i mood e ravvisare tracce di un’energia musicale minacciata da ombre corpulente di un passato che opprime e ossessiona; musicalità che straborda in “Confusione”, un hard rock cantato con la selvaggia consape-volezza che i guasti sono creati da Lei, e la composizione trascinante trionfa in una forma USA anni ’70: “Senza fiato ma non sto così male; non è niente, un po’ di confusione!”.
I New York So Far intendono coprire la distanza tra qui e la Grande Mela suonando con una vigoria che non ammette tentennamenti neanche da parte degli ascoltatori più illanguiditi dalla programmazione televisiva della domenica pomeriggio, uno deve starsene lì a sentire questi baldi giovani che se la suonano andando dritti al cuore del rock punkeggiato/punteggiato di ribellismo non svenduto, e l’aggressività la elargiscono perché pensano che possa fare bene anche a chi ha la pancia piena e non si muove da casa. Il basso testardo di “Ti voglio” non concepisce distanze, è forte della sua faccia fresca, e sente il mondo come inutile senza di Lei; i riff sono lì a creare un ritmo irrefrenabile che non eleva un muro del suono ma abbatte le barriere tra sé e l’oggetto del desiderio. La carica è straight e non indulge in supposizioni o annacquamenti; lo ripetiamo perché, come loro, dobbiamo essere un martello su questo punto: per raggiungere questo ver-sante di Long Island non si deve farfugliare frasi musicali contorte ed incerottare sentimenti sfumati, ma picchiare spavaldi, mostrare un look accattivante, grugni sodi e pelli tirate come tamburi e credere che l’im-peto di un noise controllato, erede alla lontana dell’underground ma più vicino ad una new wave marziale sempre in tiro, possa fare il resto per far salire le chitarre sempre higher and higher, come in “3 Sick minds”, in cui, fermo restando la rigidità delle frasi di chitarra, accumulate in accatastamenti massicci, l’elettronica e le distorsioni non creano impicci, ma conferiscono giusto quello stravolgimento da matti che porta ad attivare meglio gli ormoni e a dimostrare che essere un po’ strani serve a “sbroccare” irrefrenabili fuori da certo immobilismo perbenista e sembrare da subito più vitali del cugino studioso ma sempre imbronciato. In “Strange me” le scariche rassodano un’esistenza concentrata su pochi e chiari obiettivi, uno dei quali è indiscutibilmente Lei, magnete che annulla tutto, e che, unica in tutta la capitale della East Coast, può permettersi di attenuare quel beat per far affiorare il rovescio romantico di tanta spavalderia: “La cosa che mi fa più strano è quel tuo sguardo, mi riempie di curiosità e di ansietà… e non mi interessa più niente!” La densità del sound si espande a chiazza e rende tutti partecipi di questa irruenza liberatoria, ovviamente pro-grammata per l’esportazione, che presenta una notevole asciuttezza e chiarezza degli arrangiamenti, ma che non comporta affatto una secchezza del cuore, ma piuttosto la certezza che il sabato sera bisogna darci dentro finchè il ferro è caldo!
il7 – Marco Settembre
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