“Il vuoto” e il pieno: Luca Morici
Maestro Luca Morici, il tuo spessore e la tua statura artistica ormai vanno oltre le tue dimensioni fisiche; a parte l’imminente mostra alla Galleria Whitecubealpigneto di Roma come premio per la vittoria al MArteLive 2010…
Hai dei progetti futuri che siano dimensionati in proporzione con l’imponenza del tuo personaggio?
(Risata N.d.R.) No, ti prego, non chiamarmi maestro! Io sono un allievo affamato, un vorace esploratore che si fa grandi abbuffate di pittura per dar sfogo alle proprie insoddisfazioni, se lo facessi col cibo a quest’ora sarei scoppiato! Quindi meglio colori, spatole e pennelli… Il progetto più imponente che mi svolazza in testa, ora e’ quello di dipingere il soffitto del mio bagno con un affresco in toni di verde: digestivo e rilassante.
Al di là di questioni ontologiche tipo: “la qualità della tua presenza nell’hic et nunc di una estemporanea un po’ convulsa va considerata più esistenza rispetto alla condizione di chi dipinge da solo nel silenzio di un chiostro?”, vorrei chiederti se mentre dipingi hai la sensazione quasi di prosciugare le tue risorse immaginative o se viceversa ti sembra di potenziare le tue facoltà mostrando nella pittura le sfaccettature della tua personalità.
Sto convincendomi che la dimensione live forse non fa per me, o meglio, mi ci sento adatto solo in determinate circostanze, quando ho una certa carica da sfogare, ma la maggior parte delle volte ho bisogno di silenzio, oppure, se casino deve esserci, preferisco un bel disco di buon heavy metal anni ‘80. Ti confesso che alla finale MArteLive 2010 avevo voglia di andarmene a metà, dev’essere stato l’odiosissimo e ossessivo chill out del Dj. Riguardo alla tua domanda: dipende dal ritmo col quale procedo, se ho una scadenza e non posso dedicarmi con assoluta liberta a ciò che sto facendo, allora sì che sento di correre dietro a me stesso e spesso di grattare il fondo della mia ispirazione, raramente questo mi dà dei buoni frutti. Posso passare l’intera notte a dipingere, ma solo quando va a me, non quando mi è imposto dal tempo che è gli sgoccioli, mi capisci? Dipingere per me è un’esigenza, un medicamento…
Molti artisti hanno con l’arte figurativa un rapporto strumentale, direi opportunistico: si dedicano con più impegno a forme d’arte di ricerca e dipingono ritratti o paesaggi solo perché gli permette di vivere, di mangiare. Non sarà che invece sono le facce o i paesaggi ad aver bisogno dei tuoi quadri per vivere davvero, dopo che i tuoi occhi hanno mangiato la realtà?
Sono d’accordo è per questo che posso dipingere in modo sincero e onesto solo quando sono carico di sensazioni da sfogare, e poi me ne sto giorni senza riuscire a far nulla e approfitto di quei giorni per studiare.
Luca Morici è influenzato da impressioni perché nel mondo esistono solo quelle, oppure dipinge la realtà pensando all’impressione che ne possono avere gli altri, riconoscendola “scolpita” nei tuoi capolavori?
Sono soprattutto le impressioni ad essere reali nella vita, da esse dipende il modo in cui ti poni, il tuo stato d’animo fa da filtro a tutto ciò che ti succede intorno, quello che per te è bello, per un altro può non esserlo o addirittura può risultare sgradevole. Considero le sensazioni molto più reali di ciò che valutiamo come realtà oggettiva. Non riesco a dipingere pensando a compiacere gli altri, mi piacerebbe poterlo fare, fa parte del mio carattere comportarmi, nei limiti del possibile, al fine di compiacere gli altri, ma con la pittura questo non e’ possibile, non si può mentire, la pittura tira fuori ciò che sei veramente, che piaccia o meno.
Hai attraversato il tempo portando a maturazione uno stile che ancora promette sviluppi, hai attraversato lo spazio portando i tuoi pezzi da Ancona al resto d’Italia e fino all’Estremo Oriente (vero?), ed hai anche attraversato il MArteLive uscendone vincitore: qual è il viaggio che ti ha trasmesso più conoscenza?
Si, il progetto Dolore: immagini dall’arte, immagini dalla scienza in collaborazione col Centroscienza di Torino mi ha dato la possibilità di portare i miei lavori in giro per il mondo, anche a Pechino e Hong Kong. Ho ancora molta strada da fare e forse non arriverò mai, e il viaggio che finora mi ha trasmesso di più è quello dentro me stesso, il tentativo sempre vivo e febbrile di codificare le mie sensazioni col mezzo pittorico, cercando di contenermi e di essere capito.
Entrando nello specifico dei temi da te trattati: ci vuole un gran senso della vita a trattare il sole sui campi e le rifrangenze notturne dei paesaggi urbani, i volti di personaggi che perdono così una precisa collocazione ed acquistano una solidità “storica”, e i corpi contesi tra schietta sensualità e una certa immanenza metafisica. Per contenere tutto ciò nel cuore ci vuole un gran senso della vita oppure è necessario anche un certo sentimento della morte, da grande saggio che illustra tutto mantenendo l’imperturbabilità?
Avverto la fragilità della vita e ne sono consapevole, ricordarsi che “duriamo” il tempo di uno starnuto rispetto a tante altre cose che ci circondano e che saranno ancora lì quando noi ce ne andremo mi aiuta a mantenere il giusto punto di osservazione.
Tu definisci le figure in modo molto personale, con la “luce” della tua spatola, che si dibatte tra pensosità ed immediatezza. L’ultima volta che ho assistito ad una tua estemporanea, ti interrogavi su una maniera alternativa di far convivere nello stesso quadro trattamento a pennello, con stesura tradizionale, e nervosa ruvidità del lavoro a spatola. Sei arrivato a nuove formulazioni, a riguardo?
Ci sto lavorando, da alcuni mesi ho ripreso a concentrarmi sul lavoro a pennello, cercando di trattarlo un po’ come una spatola, lavorando sulla velocità, sul ritmo, per ridurne il controllo e lasciare un piccolo spazio ad una “casualità controllata”, però la strada e’ ancora lunga. Questo nuovo corso della mia ricerca è perfettamente esemplificato in “Vuoto”.
Nell’ultimo tuo lavoro, davvero notevolissimo, con un’angolazione che lo mostra dall’alto come se fosse sorpreso da un’entità superiore in un momento di solitudine, il soggetto si palpa il petto, quasi a saggiare la consistenza del suo corpo che incessantemente si trasforma, eppure con la sua sostanza plastica lo ancora con una certa pesantezza alla concretezza apparentemente schietta di un mondo che globalmente sfugge. Ma vuoi spiegarci tu qual’è l’idea che ci sta dietro?
L’idea iniziale, il seme di “Vuoto”, me l’ha fornito una mia amica psicologa, con la quale sono solito dilungarmi in interessanti conversazioni, soprattutto da quando ho iniziato con convinzione a lavorare sul tema del Dolore. Mi disse: “Prova ora a pensare a come ci si sente dopo aver ricevuto un pugno nello stomaco, e disegnane la sen-sazione che hai avuto. Quello sarà ciò che per te è il Dolore“. Lì per lì mi e’ sembrata una cosa sciocca, ma ho voluto provare, e il pugno sulla bocca dello stomaco me lo sono dato davvero! Avevo le lacrime agli occhi e nell’ immediato, a parte un gran dolore, non e’ successo nulla. Poi piano piano, l’idea e’ maturata e la cosa più azzeccata, a parte la semplicità della composizione, è evidentemente la prospettiva del corpo: è essa stessa già di per sè drammatica, come quando guardi il Cristo del Mantegna: non c’e’ bisogno di nient’altro. Il buco che gli ho fatto nel petto è un dettaglio in più, per colpire chi guarda in modo più diretto.
Vuoi riferirci anche dei riscontri che hai avuto sulla tua serie dedicata al tema del dolore? Se il dolore si agita sulla scena desertica di una realtà scavata, sei riuscito ad ottenere da queste vibranti, straordinarie rappresentazioni un successo personale capace di garantirti, viceversa, il piacere di qualche amplesso occasionale? Scherzo!!! Le suore presso cui vai in affitto a Roma non potrebbero mai permetterlo!
Guarda, le suore sono più avanti di quello che pensi, hanno pure il “Wi-Fi”, il climatizzatore e i distributori automatici e mi permettono di rientrare a qualsiasi ora della notte… solo o mal accompagnato… (ride, l’allusione è all’intervistatore, N.d.R.). I riscontri sono soddisfacenti, il progetto di conferenze mediche abbinato alla mostra va avanti a piccoli passi, correggendo un po’ alla volta la mira per essere uno strumento il più possibile utile allo scopo divulgativo che ha. Riguardo alle mie opere continuo a leggere sui quaderni delle firme commenti sconvolti dalla drammaticità delle emozioni che evocano, specialmente se abbinate alla mia faccetta sorridente.
La tua passione per la musica potrebbe spingerti a dire che quando dipingi un tastierista impegnato in una session, tu stabilisci fluidamente una conversazione coi colori dell’emozione e con le forme dei soggetti e con gli sfondi sinfonici analoga a quella che lui intrattiene coi tasti snodandoli dentro l’ideale nastro di una partitura aperta all’improvvisazione, o questa è una domanda jam che introduce una varia-zione free jazz in un’intervista mal orchestrata?
Sei complicato, mi fai impazzire con queste domande! Diciamo che perdersi nella musica, catturarne lo spirito, trovarle delle forme e dare ad esse una fluidità diversa, pittorica, è come perdersi nell’intreccio quasi musicale di una domanda del genere, trovarne il capo e districarlo per tornare all’origine. Questo sarà il mio compito di oggi, se ce la faccio ne uscirò appagato (ride)!
Per quale motivo alcuni dei tuoi soggetti prendono forma come disegni ed altri li impasti usando l’olio? Forse senti a volte la necessità di dare una definizione più chiara dei micro-rapporti volumetrici del cranio oppure ti pare che un ritratto disegnato abbia una verità più sussurrata? Oh, fa’ come ti pare, eh? Nessuno ti sgrida (risata)!
Dipende dall’approccio che ritengo più opportuno quando mi metto all’opera, è una sensazione che ti senti dentro. Il volto ritratto ha possibilità espressive immense, molto più di un paesaggio, almeno per come la vedo io, e prima di farsi prendere dalla foga di darci dentro coi pennelli e le spatole, bisogna fermarsi e aspettare che la vocina ti indichi il modo più giusto di iniziare. Oh, lo dico soprattutto per me stesso, che spesso devo sempre ricordare a me stesso di frenare…
I demoni, gli spiriti tormentati che hai dipinto in serie su commissione di un’Associazione del Nord Italia hanno riempito le tue tele con pelli bruciate di maschere di disperazione, o maschere corrucciate consumate dal vento abrasivo di un inutile rimorso. La donna bruna con le ali, incatenata in quel carcere di Piranesi in versione espressionista, sembra un angelo caduto e reso schiavo, non potrà arrivare a salvarli, temo. Ma come si colloca quel tipo di iconografia nel contesto del tuo lavoro multiforme?
Quello di “Orion” e’ stato un piccolo esperimento, che è venuto subito dopo il mio “S.Sebastiano”, è il tentativo di lasciarmi andare all’immaginazione durante l’ascolto di un brano dei Metallica, “Orion” appunto. Ne è uscita quest’arpia incatenata in una prigione spaziale. C’e’ la condizione della donna nella società, il tentativo di emancipazione che a volte prende strade sbagliate, ma quel dipinto è un po’ macchinoso e manca di spon-taneità e di freschezza, purtroppo…
Questo giudizio così severo mi sorprende… Quali sono i fondamenti dunque della tua estetica? E sono tutti frutto di una tua analisi autonoma, senza modelli? Quand’è che stabilisci che la realizzazione tecnica, la carne del soggetto, la materia del dipinto, consegue perfettamente al principio spirituale a cui vuoi richiamarti?
Questo accade principalmente quando riesco a dare unità a tutto ciò che c’è dentro all’immagine, mi riferisco all’ equilibrio e alla semplicità delle forme, alle regole della Gestaldt, e ad un’armonia che presumo di riuscire ad ottenere solo quando parto col piede giusto, al di là del tempo impiegato e della precisione del bozzetto, ne ho diversi in tasca, in foglietti poco più che approssimativi, maturati nei modi più disparati. Il momento della stesura vera e propria deve consistere in un rapido disegno, e di colori che si uniscono in armonia con il supporto e al ritmo esecutivo giusto; quando invece tutto comincia a divenire laborioso ed intricato, è come trovarsi in auto a percorrere una strada piena di buche, il mio lavoro inevitabilmente perde freschezza, ed il risultato, quando arriva, è sofferto e inappagante come nel caso di “Orion”.
Le mie influenze più significative sono i macchiaioli (Signorini su tutti) e l’800 italiano in genere, ma anche Michelangelo, Caravaggio e i caravaggisti, Guido Reni, ma pure Rembrandt e la pittura fiamminga, Mucha, Friedrich, Hopper! C’è di tutto, come vedi, ma non ho mai tentato di copiare pedissequamente nessuno di questi maestri, piuttosto ho cercato di capire la chiave del loro tocco peculiare e delle atmosfere che sapevano ricreare. La mia poetica è fatta di armonia tra forme e figure, che hanno un forte significato per me, e che vanno a comporre in alcuni casi simbologie classicheggianti la cui interpretazione a volte sembra controversa oltre le mie intenzioni!
Luca, tu dai l’impressione di raggiungere grandi livelli di intensità; così come perdi – solo a tratti – il controllo dell’aspetto formale, ma riemergendo dall’incertezza sempre con ritrovata lucidità, mano ferma e idee chiare, altrettanto devi fare quando ti confronti con la proliferazione delle interpretazioni. Infatti siamo a tal punto turbati dal Dolore, in diverse misure, che “Forse ogni piacere è sollievo”, come scriveva Burroughs, compresa la fruizione dell’Arte e l’esercizio interpretativo.
Sì, mi è capitato più volte, parlando dei miei lavori, di sentir pronunciare la parola “inquietante”; la cosa mi stupisce sempre un po’, e allora cerco di guardarli con gli occhi del mio interlocutore e capisco che ci ha visto qualcosa che va oltre a ciò che intendevo io.
In “Rivelazioni”, che porterò al Qube del Pigneto, ho inserito tra gli altri simboli un uccello, in alto, per esprimere, come nella pittura barocca, la vicinanza a Dio, ma per averlo dipinto di traverso, qualcuno l’ha assimilato a Satana! E’ un quadro scenografico, con un movimento interno centrifugo, a spirale, dato dalle nubi e dal panneggio, si sviluppa idealmente da un cerchio, figura magica di perfezione, forma geometrica senza inizio né fine, potenziato perché inscritto nel quadrato della tela. E la citazione michelangiolesca del contatto del dito puntato di uno dei bambini con un’estremità del panneggio non è bastata per qualcuno, ad avere una lettura positiva, hanno preferito vederci una condanna della pedofilia. Probabilmente più metto in gioco segni e simboli in una trance fortemente istintivo- empirica come quella creativa, più essi turbinano trovando collocazione oltre la mia capacità di spiegarli…
Siamo sicuri che il tuo lavoro subisce derive interpretative di cui Umberto Eco si disferebbe cercando l’“intenzione dell’opera”, oltre quella dell’autore, ma se restiamo alla pragmatica comunicativa è chiaro che le poderose linee di forza del tuo stile ci spingono a salutarti pregni di un senso di pienezza che deriva dalla confluenza, in te e nei tuoi quadri, di pondus classicheggiante e impatto contemporaneo. Il ritratto della salute!!!
Un abbraccio a voi e a presto, non sperate di liberarvi di me! 😀
Il7 – Marco Settembre
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