Serata assurda per il GMP del MEI
[MUSICA]
ROMA- Con un’apparente indifferenza, verso il trascorrere delle stagioni, che sa di sovrana rassegnazione, lo scorso 17 novembre il Contestaccio di Roma si è venuto riempiendo sin dalle 22:16 di un discreto numero di disperati di ogni etnia, come se ci si trovasse nella bettola di una stazione orbitante alla deriva nella Co-stellazione di Orione.
C’erano mufloni in tuta da basket anni ’70 ma col casco da astronauta, agenti estorsori del “cartello” del mercato dei wafer di Varsavia, balordi con la barbetta ed il corpo da telefonino dell’800 marziano, e femmine dai capelli grossi come cavi elettrici e pronte a pianger lacrime di coccodrillo vero pur di farsi gli occhi da gatta lucidi come gemme. In questa situazione, sospesa tra il ridicolo, l’inevitabile ed il può darsi, non potevano che disputarsi le selezioni per il contest GMP, Generazioni Musicali a Progetto, una ma-nifestazione ideata e gestita dal MEI 2010, grazie alla collaborazione con Federcultura, Confcooperative e Caviro. I gruppi che si sono affrontati sul palco, ma fortunatamente uno alla volta (!), sono stati cinque, ed ognuno di essi sembrava che portasse momentaneamente via dalla stratificata pelle dei Morgnaghj lì pre-senti, una delle loro identità, perché di fatto mettevano allo scoperto in maniera imbarazzante sfumature diverse dell’animo extraterrestre e della passione sub-umana per la musica che fu, che è e che sarà.
E così, prima che le discussioni tra gli astanti, su argomenti quali la metempsicosi, il surf virtuale sulle onde radio e il prezzo del latte in Somalia, sfociassero in risse, i Malego sono saliti sul palco con un atteggiamento sornione che lasciava presagire proprio per questo un’espressività torrenziale. Il nome è dovuto alla tensione tra l’esigenza di disciplinare il proprio mal-ego ingombrante di musicisti singoli e lo sforzo, come collettivo, di mettere in musica “lo stato d’animo di chi ha sentito troppo, ha provato troppe emozioni tutte insieme”, come hanno dichiarato in un’intervista. In effetti il gruppo ha mostrato una verve grunge-progressive di oscura profondità, con testi in italiano di spessore para-letterario; e la maglietta nera senza maniche del leader, la cui scritta platinata recitava “See the star”, era lì a chiarire le idee a chi potesse provare a giudicarlo dalla scarsezza dei pettorali: era lui la star, con i capelli corti ai lati ed il ciuffetto riccioluto davanti, e lo manifestava con dichiarazioni sprezzanti (“Noi preferiremmo che veniste più vicino, ma in fondo non ce ne frega un cazxx, perciò fare pure come cazxx vi pare!”), slanci vocali a tratti laceranti, e titillando con nevrotica grazia la chitarra nera, da cui scaturivano suoni geometrizzanti in armonia con la drammaticità del sound complessivo, degno di dichiarazioni conclusive sullo stato dei maniaci di Plutone.
A seguire, sono apparsi i Deja Vu, formazione autodefinita di pop’n’roll, a due voci, con testi cantautorali, e ricorso a melodie rassicuranti, impreziosite però dai suoni ricercati di una tastiera che purtroppo stende solo qualche intro e qualche assolo e rifinitura, ma senza (ancora) diventare protagonista di visioni musicali di livello avanzato come quegli ex guastatori dell’esercito cileno, con i moncherini a forbice, che applaudivano, appoggiati alla parete. Anche la buona chitarra solista si ritagliava uno spazio, ma il cantante dopo l’esecuzione del pezzo “Deja Vu” che conteneva un passaggio clonato da qualcun’altro, una scheggia di cover (non lo riveliamo per non privarvi del gusto di indovinare) finiva per confessare con disarmante schiettezza che loro si chiamano Deja Vu proprio perché alcuni loro brani includono echi di successi pop già sentiti qua o là, che loro invitano il pubblico a riconoscere, con un insolito “gusto del quiz”, che probabilmente ancora resisterà negli spazio-porti del 2500, se verranno messi in palio gli strumenti!
Successivamente, si sono presentati i Demoni, gruppo dal quale, dato il nome, ci si aspetterebbe un ritmo da videogioco “sparatutto” proibito ai quarantenni, o suggestioni intense ed intimiste “scaricate” dall’omonimo romanzo di Dostojevskij, e invece ci mettono di fronte ad un modello di psychedelic-pop-rock vitaminizzato con un’effettistica synth che fa del loro “satanismo gratuito” una risorsa ironica, e del 666 una iterata dichiarazione d’amore molto wave: “Sei sei sei molto ok, sembri fatta apposta per me, tu mi satanizzi…” (“666: molto ok”). In “La prova costume” la voce da palestra della scuola okkupata, e resa così indifferente forse dall’assuefazione alle ghiande lesse, canta “Siamo gli italiani che muoion di fame ma hanno la panza”. Dal vivo la loro resa non è stata ottimale, molto lontana dal sound che si ascolta sul loro myspace, perché penalizzati da problemi tecnici, ma il pubblico improvvisamente aumentato, impinguato di fedelissimi, li ha premiati lo stesso, mentre loro mostravano il loro lato più vulnerabile implorando un pezzo di scotch per tenere su le cuffie sulla testa del loro batterista, mentre quella del cantante, occhi e capelli total black, si poneva come alternativa anni zero al ciuffo di Bryan Ferry versione full-glam, specie nel bel pezzo su “I Vampiri”, ispirato al cult-movie 1975, occhi bianchi sul pianeta Terra con Charlton Heston. Occasione perduta, per loro.
Il dark impostato e un po’ algido dei Demoni incerottati lasciava poi il posto allo sfarfallio fashion di The Litchous, già da noi recensite in passato nella nostra rubrica “Il_7 su” e ora seguite dal vivo nella briosità molto brit-pop della cantante in abitino leopardato primaverile, che in arrangiamenti senza grandi scodinzolamenti se non quelli del gonnellino della chitarrista, mette giù una grinta sexy che impone il tovagliolo ai maschi in crisi d’astinenza e disposti a tollerare le martellanti bizze sonore del quartetto, tutto al femminile tranne il batterista; e se ci è dispiaciuto non ascoltare “Candy belts” che ci evoca significati impropri del tutto idiosincratici, “Baciami ovunque” ha compensato la mancanza con il mitragliare allusivo del riff, le pretese bamboleggianti d’una londinese neo-punk e soprattutto l’esortazione languida della voce che ha spinto uno sfregiato roscio e due gemelli siamesi con il tronco bullonato a gridare: “Brava!”.
L’orecchiabilità del gruppo trovava un momento paradigmatico in “Mare di vetro”, in cui la capricciosità da sopravvissuta male all’adolescenza si unisce al vagheggiamento allucinato di un oceano che si fa marea di desiderio che si diffonde sulla pelle e come il sale “brucia se perdo te”, in una frase che si allunga in un asindoto continuo, incalzante, senza legami per la passione e per la paura di smarrirla.
Per concludere, si impossessavano della ribalta i Super Dog Party, power trio (chitarra, basso e batteria) che sviluppa un garage rock avventuroso, con tanto di saltelli e passi doppi del chitarrista leader, memore forse, più che di Pete Townshend, di Angus Young o di qualche sbevazzato incline al growl che ha voglia di scalciare le casse mentre suona tutta la sua insofferenza verso la passività indotta dalla TV, e la denuncia dell’alto tasso di disoccupazione tra gli accalappiacani, da cui forse il nome del gruppo deriva. La caratteristica stilistica esibita dal gruppo nei primi due pezzi era il saliscendi ritmico in sequenze chi-tarristiche irruente ma non acide, bensì da sbruffone goliardico, da attivista smargiasso del “rumore”. Il leader, infatti, abbigliato con una maglia a righe dei colori della terra, da studente liceale, sembrava voler celebrare l’inizio dei cento giorni ed il suo diritto al “party”, come cantavano altri campioni dell’infantilismo anarchico come i Beasty Boys, anche se qui il rap non c’entra. Il grunge euforico di costoro con il secondo pezzo si concedeva una divagazione che sapeva di approfondimento delle radici: una cover di un brano blues classico rivisitato con tecnica e cuore, calcando su alcuni passaggi per rimarcare l’incazzatura sem-pre pronta ad erompere, anche quando la birra non manca (“Uno di voi mi ha fottuto la Guinness”, ha detto il front-man, e la bottiglia, anche se sverginata, torna sul palco) e i capelli ondeggiano bene mentre fai lo shoe-gaze!
In definitiva, la serata si è srotolata come una lingua di Menelicche nella terza bocca d’un post-stegosauro cowboy dell’iperspazio, e tutti quelli che, come noi, sciamavano intorpiditi fuori dal locale sotto al notorio “Monte dei cocci” di Testaccio, qui a Roma, avevano un pallore da deidrogenati patiti della guerriglia sub-urbana a suon di frustate con gli strofinacci, ma soprattutto, visti i più recenti sviluppi fantapolitici nel Parla-mento della Padania, e viste le nuove prospettive nello sfruttamento scientifico dell’Antimateria, ci chiede-vamo se anche tutto quello che avevamo visto e sentito in questo mercoledì sera al ConteStaccio fosse avvenuto davvero!
il7 – Marco Settembre
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