Adolescenti come freaks
[IL_7 SU…]
L’Arte spesso è contemporanea di qualcos’altro. Sabato 16 Ottobre 2010 è stata una giornata bollente di uno di quegli “autunni caldi” che fanno molto anni ’70, stavolta marchiata a fuoco dalla manifestazione pacifica della FIOM, capace con la sua motivata protesta, di dividere il fronte democrat.
In una giornata del genere, è andata “in scena” un’altra contrapposizione forte nella sua inclinazione all’estrosità, fuori dai confini di quello che si tocca con mano o si vede nelle bistrattate “piazze”: il duello frontale, parete contro parete piuttosto che muro contro muro, tra Bafefit (Raffaele Iodice) e Paolo Petrangeli. Loro, anziché impegnarsi nell’agone politico, si rifugiano nel privato dei sogni, o meglio incubi cult dell’underground, lasciando fuori dalla cornice la realtà grezza e antiestetica che però ci fa soffrire e sputare quei segni e colori che conservano viceversa la grazia del delirio (in?)controllato, il tutto in un locale-corner shop, il Rock Cycle di via dei Volsci 44b a S.Lorenzo, consacrato al merchandising di culto.
Bafefit col suo tratteggio a oltranza, in un prevalente bianco e nero da reincarnazione di un vecchio incisore “disturbato”, ci declina, in una serie di quadretti da ora del tè col mostro bavoso, una galassia di minute visioni adunche e impertinenti come Goblins dell’anima, trafitta dalle stilettate d’una società infetta. Anche le icone pop come sappiamo, subiscono mutazioni, in quest’altrove visionario e puntiglioso nei dettagli, e allora Bloody Bunny è l’iconica effigie di un Bugs Bunny zannuto visto di profilo come nel rovescio di qualche doblone, ma qui la sua pelle è coperta da pallini, e meno male che ogni peletto se ne porta via uno, altri-menti questo pois si sarebbe diffuso come la lebbra; le scolature però fanno il lavoro più grosso, in quel senso, cercando di far venir giù il marciume goccia a goccia, così come s’era infiltrato nelle ossa, mentre il tronco a strisce è una colonna della creepy art. C’era il circo in città (inchiostro nero e rosso sull’interno d’una copertina di libro vintage) è la succulenta istantanea vergata a mano e imbastardita dal tempo, che ritrae una coppia di rovinati dall’alternative notturno: uno è diventato un reuccio dei giullari, ma ha la bocca tenuta aperta da due ganci all’estremità di due fettucce, stile Hannibal Lecter rintontito, e gli occhioni da killer patetico sembrano indecisi tra il provare terrore e l’infonderlo tra gli abitanti del paesetto russo con guglie addormentate, la provincia fumettistica, post-chagalliana di una S.Pietroburgo fantasma. Uccellacci citrulli neri svolazzano un po’ ovunque, mentre la belva pupazzo tiene al guinzaglio l’attrazione delle sue serate al parco pubblico: un gatto farlocco e moccioso che ha trasmesso al padrone il virus degli alberelli che spun-tano dal corpo, e dal padrone ha ormai preso gli occhi sanguinanti e l’abitudine di camminare ad un palmo da terra grondando sangue rosso-nero giù dalle estremità a palletta delle unghie.
In generale, sono innumerevoli gli elementi decorativi dark acidoni che concorrono a caricare di segno, manualità, simbolismo e fascino queste immagini che presentano sogni sfigurati da un dolore muto vissuto con un’ironia impotente.
Le cornici sono parte integrante dei quadri, oggetti prelevati dalla soffitta di qualche bidello e poi trattati con un’emotività viscerale, per renderli adatti a fungere da affaccio su una dimensione contorta che piange tutti i suoi ricordi. Flora è un pesce-donna coi capelli lunghi che ha propaggini floreali come felci, e, in uno spazio stavolta più rarefatto, è circondata da altri esseri bizzarri tra cui il pesce coronato con la lunga lingua, da cui nascono fiori con pistilli simili a croci, indice di una religiosità che attecchisce stravolta dalle contrarietà. La sirena appare dunque una derelitta con una storia personale che l’ha fornita di corna di corallo nero a cui sono appese bare e croci per ogni pensiero tenero caduto in disgrazia. Ma la bara centrale, graziosa e col sangue che cola, è quella incapsulata nel buio del suo ventre, da cui si diparte la scia d’uno spiritello con analoghe ramificazioni in testa, e orecchie pendule dalla superficie bollosa, forse un amore perduto che esala dal cuore di lei come se gli dispiacesse di abbandonare la sua prigione.
Freaks, in una cornice grafica interna al quadro, che istituzionalizza epicamente il massacro dell’antropomorfismo voluto da una Natura che fa la pervertita e deforma percentuali sfigate di poveracci, presenta non the Ele-phant Man ma un bambinone con la bocca aperta in un ingenuo “Oooh” di meraviglia; costui ha la testa che in cima sfocia in un’altra capoccia incoerente, con gli occhi un sull’altro e separati da naso e bocca piccoli che sembrano dire: “Perché faccio “Oooh” pure io?” Le orecchie sono da Bambi demoniaco e l’aureola se l’è meritata ripetendo ossessivamente che non è colpa sua se deve sopportare tutta quella shit infernale che lo tartassa dall’esterno. 3 sirens mostra tre donne-pesce col corpo attorcigliato a tortiglione su uno sfondo pieno di palle con alone rosa, forse bolle d’aria o pianeti subacquei disabitati, e le tre piangono lacrimoni da coccodrillo ma con quei boccioli strani che gli spuntano sulla cresta, chissà quanta sporcizia dovrebbero rimuovere dal loro ritratto interiore per poter tornare a prendere il sole malato della palude. Red mask presenta un tizio vestito con un completo quadrettato con cuoricini, abito che però non distoglie da mani e piedi neri lunghi come artigli stirati dalle tenaglie del ministro Alfano. In un vaso là accanto c’è una pianta con le radici di fuori e l’infiorescenza, simile ad una maschera coi capelli simili a stelle filanti nere, ma il gambo è collegato con una cordicella ad un’altra maschera grottesca ai limiti dell’ebete che è sospesa davanti alla faccia del tizio. Anche le nuvole grondano sangue nero, ed il campo di grano è infestato da scarafaggi liberty che si credono importanti. Pettirossi mangia-budella è un piccolo quadretto amaro conchiuso in un tondo sotto ad un vetro tinto, ai bordi, di nero smalto graffiato come la cornice. Gli alberi rachitinosi e paralitici sono frequentati da uccelli-bambino, chi più chi meno, di cui due sono scesi al suolo per razzolare male senza predicare niente, ma piuttosto beccando dei lombrichi che poi non sono altro – come dice il titolo – che le budella vermicellari forse di qualche mostro aperto in due per farci un panino. Immagini che sono il residuo terreo e incattivito di quell’età vittoriana in cui il puritanesimo proibiva di usare come illustrazioni sui libri di fiabe immagini che cercano nell’inquietante anti-canonico la fuga da una realtà in cui l’industrializzazione e il colonialismo portavano vantaggi solo alla classe media di commercianti e banchieri che sfruttavano la miseria in un clima ultraconformista imbibito di positivismo.
I due artisti in mostra hanno esposto pezzi prestati per courtesy della Mondobizzarro Gallery, che ha preso ormai in consegna i loro lavori per preservarli dagli eccessi dello sregolamento dei sensi preannunciato da Rimbaud, per impedire che esso prenda il sopravvento e impedisca a certo barocchismo dark o pop surrea-lista di erompere dalle mani fatate dei due artisti. E’ per questo che entrano in scena galleristi e collezionisti: per certificare il valore dell’opera, e sottrarla al pericolo rappresentato dai loro creatori, soffocanti come madri esigenti!
Paolo Petrangeli, sempre classicamente impegnato ad esprimersi con olio su tela, ci introduce in un mondo di Misplaced Childhood, in cui la purezza dello spirito, pur contaminata dalla consapevolezza di una crudeltà sottile, non viene mai espunta dal mix umorale psichedelico che forma i suoi giovani e già esacerbati soggetti. Nel suo ormai celebre Compagni di merende, su un prato erboso e innocente l’adolescente dal ciuffo rockabilly dalle lunghe punte divora un corvo infilato in un cono gelato mentre un altro gli bucherella la schiena suggendo il suo sangue in diversi punti dopo aver scoperto che il sapore ogni volta è diverso, accordandosi con un mood cangiante come la malinconia d’un cuore ondeggiante. Geniale rappresenta-zione di un vampirismo reciproco tra soggetto ed oggetto del desiderio, tra oggetto di forzata rinuncia e sog-getto di sterile rimpianto, setting psicologico che induce ad una trance invelenita, alterando il gusto anche dei momenti più delicati, dove lo strazio si fa più acuto ed è richiesta una maggior pazienza. Il trucco punk e lo sguardo limpido, resi con grande perizia tecnica e indiscutibile gusto cromatico, sono lì a suggerire che c’è un mondo di bambinaggine traviata dietro a questi passatempi carnivori, allegoria di una società globalizzata in cui il turbinio degli eventi sociali e della produzione culturale ci viene “venduto” contando sulla ricettività di individui resi “antenne” sofferenti eppure obbligati ad essere produttivi, relegando in un angolo del cervello gli scorci di natura e la fantasia disinteressata. Infatti, in Colazione tra i rami una “pischella” imbronciata dalla nascita, di nome Sofia, ha sovrapposto alle lentiggini un po’ di colore artificiale per cercare di fare la cameriera- divetta in un locale di Edimburgo, lei che ormai è tanto avvelenata da non sentirsi più a suo agio a fare Heidi tra le collinette svizzere in cui Petrangeli comunque ancora la colloca. In effetti, il bacino d’im-maginario a cui l’artista attinge è anche quello di certo reflusso rock anni ’80, con il rockabilly che attenua la virulenza punk porgendola ad un pubblico più “beneducato”, ma anche i film di Terry Gilliam, la No-Wave legata all’alienazione contemporanea, ed un po’ di Goth, stemperato però nello sguardo adolescenziale. Tornando a Colazione tra i rami, è chiaro che le morbidezze dei ricordi infantili hanno germogliato nel cerebro della protagonista della visione, facendole un buco da cui esce appunto un albero da cui pendono tazze, teiere e biscotti, e sui cui rami si muovono un pennuto bianco e nocciola dalle cornine da mini-daino, ed un orsetto buonissimo che si chiede: “Perché mai la mia padroncina si fa le extensions se siamo noi le estensioni sognate del suo cervello?”.
Lo stile di Petrangeli forse sta registrando ultimamente un incremento della densità di elementi, a tutto vantaggio della narratività delle immagini, ed il sincretismo tra atmosfera fanciullesca e acidumi sado-masochisti sfocia in un caso, in un’allusione all’universo cyborg. L’eremita, infatti, stupendo pezzo, parte di una serie sui tarocchi, non è risolto solo con riferimenti malinconici e naif ad un medioevo spirituale, ma piuttosto con la definizione di un carattere ascetico ma post-umano: il giovane sognatore in abito nero sacerdotale regge in mano una lampada a petrolio e usa il braccio come trespolo per una magnifica civetta, ma soprattutto si isola dal mondo civilizzato e dall’indifferenza del mondo materiale grazie ad un enorme paio di cuffie che, anziché essere collegate all’I-pod, hanno il jack collegato direttamente nella carne del petto, ricordando il film di Cronenberg ExistenZ, e insieme lanciando il messaggio che egli preferisce ascoltare solo il suo cuore, in cui la purezza è ancora gelosamente conservata. Intanto, tiene per le briglie il suo cavalluccio a dondolo, perché è l’unico mezzo che può portarlo al santuario- LunaPark abbandonato in cui entrambi hanno trovato alloggio tra i monti innevati, al riparo dagli sguardi in-discreti dei parenti, meno comprensivi degli Stray Cats. Ancora su collinette smeraldine da cartone animato onirico con sdolcinatura calcolata nella glassa rosa sulle vette circostanti, si muove L’addestratore di pennuti, con una tenuta anni ’80, da compìto bambinone new-romantic da rock party; l’autore stesso confessa che la figura per molti versi gli somiglia, specie nei sopraccigli, e negli occhiali dalla lente incrinata (altro dettaglio realistico reso mirabilmente), ma per il resto, con la camicia a scacchi bianco-nera ed il maglione scarlatto a pois, il ragazzo lascia che i suoi pennuti si esercitino a praticargli con il becco buchi in faccia da cui estraggono il sangue che gli serve per farsi crescere le corna di corniolo. Lui usando il frustino cerca di aizzarli contro un tale che dovrebbe avere le esatte fattezze dipinte sul palloncino di cui regge il filo, ma gli uccelli dagli occhi neri insondabili se ne fregano e pensano: “Intanto qui ci sei tu e noi salassiamo te, poi si vedrà…”. Alberi come gelatini capovolti e fiori sanguinolenti completano la visione di giochi infantili degenerati in delirio solipsistico per mancanza di sfogo alla propria sensibilità.
1945, per concludere, è il coraggioso e intrigante ritratto di una giovinetta berlinese di buona famiglia compromessa “alla grande” col nazismo, tanto da portarne una spilletta sul maglioncino. Il colletto ricamato non può rassicurare sulla sua indole: l’educazione trasmessa dove è stata carente? Oppure: chi le ha precluso le immagini di sogno che qui infatti non compaiono? Ora il suo sguardo resta velato di sangue, perché dentro ha caverne mostruose, e fuori ha prodotto orrori che dal bordo superiore del quadro scolano un sangue copioso, un sipario che anche a guerra finita cala sulla sua memoria e la disturba, povera cara, al punto di spingerla, coi suoi dentini di piccola spia, a mordersi le labbra per la trepidazione, in attesa di una nemesi punk da tregenda!
Il_7 – Marco Settembre
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