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Tra suoni e immagini: Calibro35

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calibro35-webAttesissimi ospiti dell’ultima serata del MArteLive, i Calibro35, non ci siamo quindi fatti sfuggire l’occasione di farci raccontare il loro interessante progetto tra musica e cinema.
Quattro musicisti da background diversissimi: Massimo Martellotta (Stewart Copeland, Eugenio Finardi, Mauro Pagani) è alle chitarre e alle lapsteel, Enrico Gabrielli (Afterhours, Mariposa, Morgan) su organi e fiati, Fabio Rondanini (Pino Marino, Roberto Angelini, Collettivo Angelo Mai) alla batteria, Luca Cavina (Transgender, Lindo Ferretti, Beatrice Antolini) al basso elettrico, che abbiamo intervistato…

Come è nata l’idea delle colonne sonore? È una cosa diversa dalla canzone “tradizionale”…
È nata con l’idea del gruppo, sono la stessa cosa. Si sono unite due esigenze in realtà casuali.
L’idea del progetto è venuta a Tommaso Colliva, nostro fonico e produttore, che è il vero appassionato, filologo, conoscitore di colonne sonore.

Sul vostro myspace è definito “regista”…
Regista perché essendo quello più esperto, nel momento in cui ci siamo conosciuti musicalmente (perché non avevamo mai suonato insieme), lui ci ha dato delle indicazioni di massima su brani che si potevano fare… Poi li abbiamo scelti insieme, ma in qualche modo è lui che ci ha introdotto a questo mondo delle colonne sonore.
Questa cosa si è anche unita all’esigenza di ognuno di noi di fare della musica strumentale, che non a caso in Italia sta anche ritornando. Penso a gruppi come gli Eterea Post Gong Band, anche se fanno altre cose; però c’è un ritorno di questa musica strumentale. Sarà forse dovuto ai problemi che danno i cantanti, in generale, come ruolo…

…che sono un po’ egocentrici?
Volendo generalizzare, sì. Ma facendo uno studio antropologico pare proprio che sia così!
E comunque al di là di queste amenità, è Tommy che ci ha introdotto a questo mondo. Noi ci siamo trovati direttamente in studio, a luglio 2007, a provare questi brani, suonarli e registrarli; e la cosa bella è che involontariamente, proprio perché ognuno di noi veniva da esperienze musicali diverse, ci siamo calati in quello che effettivamente era il fare una colonna sonora ai tempi. Cioè il fatto di sbattere dei musicisti di estrazioni diverse in sala due-tre giorni…
Questa prima cosa l’abbiamo ovviamente fatta confrontandoci con del materiale già esistente e quindi facendo brani non originali; cosa che poi si è evoluta nel secondo disco, in cui ci sono anche brani nostri.

Le colonne sonore o comunque la musica strumentale in generale, ti dà in qualche modo la possibilità di sperimentare anche di più, di esagerare, di mescolare molte cose insieme. Spesso la voce “vincola” la musica a quella che è la forma-canzone.
Anche se in realtà c’è gente che usando la voce ha fatto musica sperimentale, al di là del solito schema strofa-ritornello-strofa-ritornello, sicuramente l’ambito delle colonne sonore ti dà la possibilità di sperimentare molto di più. Non a caso, secondo me, molta della musica più interessante che è stata scritta in generale, oltre la classica e contemporanea di ambiente colto, è strumentale; anche in quella genericamente detta pop-rock.

Voi fate colonne sonore di poliziotteschi, B-movies… Perché proprio questo tipo di colonne sonore? È stato casuale o è una scelta fatta per passione?
L’idea è nata dopo una discussione tra Enrico (Enrico Gabrielli, ndr) e Tommaso (Tommaso Colliva, ndr) che erano in America con gli Afterhours: in qualche modo l’Inghilterra e l’America riescono a esportare la propria musica fuori dai loro confini, come qualcosa di peculiare.
Quindi, si sono chiesti per cosa l’Italia è conosciuta a livello musicale all’estero. Risposta: le colonne sonore, soprattutto di un certo genere di film, dai western ai poliziotteschi, che hanno una cifra stilistica particolarmente italiana.
Purtroppo in Italia pare che la musica possa essere solo la canzone italiana, che la cartina al tornasole della musica sia il Festival di Sanremo. Il problema è il rischio che questa cosa sia vera. In realtà in Italia si fa molta musica interessante, ed è anche vero che molta della musica interessante che si fa in Italia è estremamente derivativa, nel senso che dipende da modelli importati da fuori.

E la musica d’autore, italiana? Non è qualcosa di tipicamente italiano?
Sì, ma si fa fatica a esportare ad esempio un De Andrè…

Per la lingua?
Anche. Quindi probabilmente un territorio, diciamo così, più puro come la musica senza le parole, può essere in qualche modo più universale.

Quindi è anche una scelta di comunicazione, in un certo senso…
Anche. Ma il progetto non è nato con l’obiettivo di sfondare all’estero, ma da un ragionamento sulla peculiarità musicale italiana, su cosa in qualche modo può avere un riscontro anche all’estero. Così come fa la musica americana, quella inglese… La risposta è stata quella che conosci.

L’immaginario che fa da sfondo a questi tipi di film, e quindi all’elaborazione della colonna sonora, non è più americano che italiano?
Quello che rende particolari quelle colonne sonore è che si cercava di imitare un modello americano. Quando ad esempio si diceva ai musicisti: «prova a fare un funk à la Quincy Jones», di fatto il risultato che veniva fuori era un miscuglio di influenze che generava uno stile misto che secondo me caratterizza il genere italiano, chiamiamolo così. L’Italia stessa è una nazione-non-nazione, nel senso che è un gran miscuglio.
Quindi sì, i film avevano dei modelli americani. Ma una caratteristica tutta italiana è che in Italia non c’erano i mezzi che c’erano ad esempio in America per fare i film; e ciò che piace di quei film e che li ha fatti anche diventare di culto, sono anche certe invenzioni estremamente artigianali. Ti faccio un esempio: Cannibal Holocaust, che è un film per non tutti i palati. Se pensi a come hanno riprodotto certi effetti scenici e determinati effetti splatter sapendo che avevano a disposizione dei mezzi estremamente limitati, hai idea della concezione artigianale del film che hanno certi registi. Non c’era nessuna matrice intellettuale o intellettualoide dietro quei tipi di film, era puro intrattenimento. Questa caratteristica di artigianato è anche una cifra stilistica del cinema italiano.

Secondo te il film di genere, è un limite o uno spunto?
Il limite di solito è autoimposto. Da questi tipi di film sono nati connubi molto strani. Prendendo gli anni Settanta, per esempio, certi compositori di colonne sonore di fatto si confrontavano con un cinema di genere che però spesso era esso stesso un miscuglio.
Certi film di Fernando Di Leo magari vengono classificati come poliziotteschi ma magari sono più dei noir. Altri film contemporanei magari hanno elementi poliziotteschi pur non essendo tali…
C’è per esempio un film di Damiano Damiani che si chiama L’istruttoria è chiusa: dimentichi, con Franco Nero, (colonna sonora di Morricone, tra l’altro), che a livello puramente estetico, di immagini, di fotografia, ha degli elementi tipicamente poliziotteschi, pur non essendo un poliziottesco.
Noi, oggi, abbiamo preso dei film di allora e ci abbiamo messo sopra delle etichette per comprenderli, ma queste etichette non sono state limitanti. Nemmeno per la musica; anzi, la musica è stata anche una componente che ha aggiunto qualcosa a quei film.

Probabilmente, se non ci fosse stato quel cinema non ci sarebbe stata quella musica…
Sì, certo…

…senza quel tipo di immaginario…
In questo senso, però, è un limite. Ma un limite che ti crea delle possibilità da un punto di vista creativo.

Anche voi avete scritto una colonna sonora originale per un film, Said di Joseph Lefevre. Come si scrive una colonna sonora? O meglio, come avete scritto quella colonna sonora?
Ci sono tanti tipi di colonne sonore e tanti tipi di film. Il film del quale noi abbiamo scritto la colonna sonora ha un target molto preciso, ha un sacco di rimandi a Tarantino; se ti chiedono di fare una colonna sonora per una cosa del genere, c’è un panorama a cui attingere. Immagino che sarebbe diverso per un film fuori dai generi.
Non penso che esista un solo metodo per scrivere musica per il film, come per scrivere musica in generale: ogni compositore ha i suoi metodi, si può partire da un’improvvisazione o da una scrittura rigorosa…
Nel nostro caso, abbiamo prima visto il film senza musica con dei consigli sonori del regista; poi dopo, riguardando il film abbiamo scritto alcuni brani direttamente sopra le immagini; altre cose sono venute fuori improvvisando in studio guardando il film proiettato.
Lo studio dove abbiamo registrato, poi, era pieno di strumenti diversissimi: percussioni giganti, campane tubolari, organetti di ogni tipo e misura.
Il fatto di trovare uno strumento inaspettato a volte può essere uno spunto: non c’è necessariamente un unico approccio.

Come avete deciso di passare dalle cover alla scrittura di pezzi vostri? Per il tipo di cose che fate avreste potuto continuare a proporre brani di altri… Voi avete scelto di fare di questo la vostra musica. Perché?
Noi continuiamo comunque a riproporre quelle cose, perché a volte si tratta di una vera e propria operazione di recupero archeologico: spesso si tratta di brani di fatto sconosciuti che noi ripeschiamo, ed è comunque interessante, al di là di tutto, portare avanti i due sentieri parallelamente. Il passaggio in realtà è avvenuto in maniera naturale, suonando dal vivo. Un’altra cosa che mi piace molto di questo progetto è che eseguiamo dal vivo della musica che non è concepita per essere suonata dal vivo: spesso ai nostri concerti ci sono anche persone di cinquanta-sessant’anni che hanno la possibilità di sentire suonate dal vivo le colonne sonore dei film che guardavano da ragazzi.
Soprattutto dopo l’uscita del primo disco, a furia di suonare e improvvisare è venuto proprio spontaneo fare brani nostri; anche perché abbiamo raggiunto più consapevolezza e affiatamento come band.
Nel primo disco il collante era il repertorio, nel secondo eravamo noi stessi, noi come gruppo. Infatti il secondo disco è anche molto eterogeneo, nel senso che ci sono un sacco di cose diverse, ma ciò che unisce tutto è il nostro suono; è una prospettiva completamente ribaltata.

Come scrivete i brani?
Alcuni brani sono di Max (Massimo Martellotta, ndr), il chitarrista, che è quello che ne ha composto la maggior parte; altri sono venuti fuori nei sound check, registrandoci e improvvisando: poi si estrapola da lì quello che sembra più interessante e ci si lavora. Quando componiamo un brano cerchiamo di sviscerare un’idea, non di ammassare troppe cose a caso.

Che pubblico avete?
Direi trasversale, come ti dicevo, proprio per il tipo di proposta musicale. Noi veniamo da diverse esperienze, e la cosa si sente anche, il pubblico lo percepisce. Vengono a sentirci dal nostalgico all’appassionato di musica, il cultore di quel genere particolare, c’è l’“alternativo”… Sto ragionando molto per stereotipi, però di fatto la cosa che mi ha stupito è che se ci sono un sacco di barriere musicali in molti generi o presunti tali, con le cose che facciamo noi, potremmo suonare sia in un club blues che in festival come Italia Wave

Chiara Macchiarulo

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