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Gli strappi, gli impomatati, il bistrattato, l’esule

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il7Gli Astrid Hotel iniziano con un drumming interessante, volutamente macchinoso, il brano “75 cl d’aria” portando avanti poi con un’incalzante chitarra ritmica, con distorsioni e organo polveroso, la descrizione di una sinistra monotonia.

Con rallentamenti che inducono a riflessioni incoerenti, dilatazioni neo-progressive inquietanti che lasciano presagire iniqui scambi di lordure in un sottotesto di basso che è quasi filmico, tra campanelline da central hall di una stazione indocinese, fino ad un crescendo che porta ad una Astrid_Hotelmomentanea esplosione di furia incontinente, dopo la quale non resta che la lunga sfumatura, cioè il ripiegamento su un meccanismo di incapsulamento che porta alla paranoia anche le cameriere dell’hotel, rese complici dello scorticamento di anziani tappetari (“tanto è inutile circondarsi di perchè…)” L’apertura in chiave di ipnotismo diafano di “Ultimi giorni” produce uno sfilacciamento emozionale che subisce lo scacco matto dalla contemplazione catatonica di un paio di mocassini accartocciati: “Le sue gambe erano stanche, neppure il bastone lo sosteneva ma lui credeva, con le scarpe ai piedi, di poter volare..! Ho visto immense distanze colmarsi in un attimo senza dirsi addio…”. La psichedelìa indie intesse slanci chitarristici istoriati e cadenzati con ampiezza, e distensioni esanimi di pieghe di un passato finito, ma capace di sollevamenti verso ineluttabili assoluti; la tecnica si accompagna ad una pulizia che consente alla suggestione di srotolarsi nelle spire di arrangiamenti per intenditori, gente che non frequenta la musica, la “abita” come un hotel di lusso. In “Laudano” sono protagoniste le pizzicate stanche della chitarra elettrica in un sordido fumoir, dove artisti insani si prestano gli sfondi immaginifici per le loro pene d’amor perduto, ed anche il basso pastrugia nel buio finchè le fantasie si animano con una batteria trattenuta da un sonno mistico condito da un mix di liquori sonori. In genere, però, negli Astrid Hotel, gli scardinamenti inevitabili del self control sono i picchi d’asprezza d’uno stile espanso che lascia compiaciuti, perchè la voce interpreta con vaghezza spezzata e ruvido vigore le alternanze emotive, ed il ricorso all’elettronica dei synth favorisce lo sviluppo di una visionarietà a strappi grunge seghettati e variegati, esito potentemente malinconico di una strumentazione pregnante la quale sembra chiamare in causa tutte le frastagliate apparenze di una realtà che ha bisogno del rock più emotivamente saturo per trovare il coraggio di mostrarsi così com’è: storta!

Il_Circo_BauMannIl circo BauMann di Gabriele Hintermann (e Flavio Bauer, da cui la crasi nel nome della band) dovunque vada, dispone in forma acconcia gli arredi del suo carrozzone e conferisce pulsazione sonora e stravaganza visiva ad un crogiuolo di influenze e suggestioni popolaresche e colte insieme che vanno da Fred Buscaglione a Tom Waits, da Leonard Cohen a Bertolt Brecht, passando per Charles Mingus e Enzo Jannacci, confidando che gli altri spiriti evocati aleggino a mezz’aria al di sopra del fuoco del bivacco musicale, in attesa che gli interpreti omaggino anche loro con un ondeggiamento dell’archetto sul violino, o con un misurato sberleffo. “Soli a primavera” inizia con un ben eseguito accenno, al violino, della “Primavera” di Vivaldi, prosegue con il vocalizzo evocativo di una musa soprano che sembra lanciare il lamento dei boschi della Tracia, mentre il ritmo percussivo cavalca il folklore europeo, e la voce canta: “L’ambiente in cui viviamo si fa maldestramente malsano”, lasciando poi spazio ad una sezione dominata da un violino che è tzigano non così, tanto per dire; in seguito viene scatenato un abbozzo di giga dei balcani, su cui però, con una coda affidata a ingenui vocalizzi, si ironizza sulla solitudine “…a primavera, con questo sole così pieno che sarebbe da rifar”. “Ci sollazziam” inizia come una taranta salentina contaminata dai turchi e segnata dalle considerazioni di un tale che rifletteva prima da solo, “per poter veder meglio quello che avevo intorno ed aspettai ed arrivai a capire meglio quello che era meglio senza più tergiversare…”. e poi con la sua donna con cui brillantemente conclude che è meglio sollazzarsi che faticare e sprecare il sudore “…Ci sollazziam come non abbiamo fatto mai”, atteggiamento che il ministro Tremonti definirebbe improduttivo e irresponsabile; a voi la risposta! “Giallo” inizia con una sciarada chitarristica blueseggiante, poi il ritmo è quello da balera romagnola, su cui le parole del disincantato pseudo-devoto innammmorato preparano una fuga imminente (“Dico NO a chi vuol restare per morire… Lascia che sia il contesto giusto per fuggire via con te, accanto a te, sempre con te… ma che coglioni!”) e svolazzi chitarristici spuntano qua e là ad imbellettare la canzone jazzata. “Waltzer du bordel”, strumentale, è costruito su gravi e/o patetici accordi di piano che prendono presto la forma d’un waltzer per pollacchioni viennesi che sognano di invadere la Padania costituendosi in un esercito di impomatati reduci da bordelli anni ’30 in cui l’allegria è soffocata da enormi seni cadenti imbiancati da nuvole di borotalco vecchio e ingiallito. Fisarmonica e piano, contrabbasso, percussioni, violino, flauto traverso e tromba, insie-me a voci e chitarra approntano un intrattenimento decadente, misto a guasconerie sperimental-popolaresche vecchia Europa!

I Botos, nati alla fine del 2008 non dallo scoppio di uno zigomo al botulino ma da un gruppo di Botosamici reduci da esperienze musicali in comune che cercavano di non fossilizzarsi in espressioni musicali prevedibili, si avvalgono di un cantante, Massimiliano “Boto”/”Budokan” Olivi, che oltre a star lì a fare il suo, seduto con la gamba accavallata e la scontata chitarra poggiata sopra (obbrobrioso, secondo i suoi compagni di cordata), si ritrova ad aver anche dato il nome ad un grup-po di persone che erano lì ben prima di lui, ad ispirarsi a Richard Benson. Tuttavia nessuno rimprovera ai Botos di essere demenziali; diciamo pure che ci è di sollievo che non spingano il loro programmatico cinismo buffo al punto di trascurare quei dettagli che sono così importanti per la loro musica. Infatti l’arpeggio originale che apre “Emozioni”, non è che la prima micro-sezione di un pezzo che riesce ad Emozionare non rendendoci ipersensibili fuscelli al vento della più labile calunnia; il secondo segmento risuona misterioso ed incombente specie nelle teste di chi teme ad ogni passo la batosta sulla chioma a caschetto screziata del veleno di chi gli vuol male, e solo dopo, su uno scampanìo chitarristico d’avvertimento, s’ode la voce del bistrattato neo-dark che langue come un ortottero in un cantuccio unto. Galvanizzante! Poco dopo giunge uno degli sbroc-chi metal che punteggiano la schizofrenia ostentata (“Sembro brutto e trasandato, ma il mio look è ricercato”) di un brano che propone anche fasi semi pop da San REmo, fino alla pantomima finale, da sit-com “insensibile”! “Voglio la Ford Escort”, invece, è basata su un groove fusion costruito per dare alloggio ad una doppia lettura: quella in chiave consumista di chi guarda le macchine altrui e studia cosa può fare per piacere agli altri, e quella gaudente di chi si procura “carrozzerie” in comodato d’uso per tamponamenti sessuali a pagamento o in conto terzi. “L’ascensore” si presenta invece come uno ska all’italiana, una marcetta sincopata su cui la voce giovialotta da fotoromanzo ha buon gioco nel dichiarare che “l’amore passa in ascensore, attraverso il su e il giù del cuore” e senza una Lucia che saltella tra neuroni e ventricoli il mondo sarebbe plumbeo, e gli assoli surf-music non riuscirebbero a mantenere l’umore al di sopra dell’ abisso. Una congrega di laureati bellimbusti che scorazzano tra i generi, pronti a svillaneggiare anche Elio, e a parodiare perfino le Storie Tese!

OcchiporporaGli Occhiporpora è un progetto dalla lunga vita; la loro origine risale al 2003 e attraverso i cambi di formazione (prima nuove inclusioni, poi defezioni dolorose) non hanno mancato di arricchire il loro patrimonio musicale combinando in modo sempre più vitale e creativo le loro influenze che svariano dal miglior progressive e psichedelico anni ’70 alla musica d’autore italiana, con testi piuttosto veri, spesso autobiografici. Se pure la malinconia, avvisano sul MySpace, potrà spun-tarla a volte, nelle alterne vicende della vita, il loro principio di realtà gli lascerà sempre la mente pronta per nuove sfide, anche sotto la pioggia o accanto a pittori di strada! E dunque in brani corposi, segnati dal classicismo di piano e tastiere, ma anche dall’arrembante crescendo indie di alcune sezioni, si staglia la voce roboante di un vocalist il cui tono altisonante da Ligabue epico o da Piero Pelù profetico si divide tra il desiderio di dare una connotazione storica a brani come “Giorni di gloria” , in cui l’intro al piano diventa il sostrato da cantico carolingio per un periodico assalto ai bastioni d’una fortezza normanna (“Spazzo la polvere dalle mie dita e rivivrò il brivido dei giorni di gloria”), e la voglia di dare impeto a rivendicazioni psicologiche di sfondo mooolto contemporaneo: “Occhi neri, ma quando te la smetti di provocarmi?.. Adesso siamo soli, adesso siamo al buio, ma cosa fai, tocchi?” (“Occhi neri”) Il volume con cui la voce è registrata probabil-mente è sovrabbondante, la personalità dei pezzi deve emergere nell’impasto strumentale, oltre che con la verve del lead singer; in tal senso la drammatizzazione magniloquente di “Covanetto” non dovrebbe trovare la sua giustificazione solo nella dimensione live della registrazione. In “Pioggia” il piano elegiaco ed il ritmo andante, poi smorzato a tratti per favorire il rimuginìo del leader, mostra con profonda partecipazione la vicinanza ai tormenti e alla consunzione di uno che sente di essere un loser nelle sfide con la propria vita, ma che non getta la spugna: ha ripreso a fumare, a far tardi, a scaldarsi la gola con l’alcool, ma intanto vive l’attesa di un’alba perfetta, consapevole che “il cielo assorbirà le mie incertezze, i miei dolori, le mie gioie, ed in cambio non regala niente, solo pioggia”. E’ possente il ribellismo angustiato ma virile del pugnace e medita-bondo esule dagli orizzonti di gloria e di sogno, che, in pieno automonitoraggio, confessa: “…e mi pettino l’animo inquieto come fosse una donna”.                                       

Il_7 – Marco Settembre

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