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Sonaglini, alghe secche, diagrammi e funghi

il7
[IL_7 SU…]

il7Che giudizio scomposto e lunatico si può dare de La carovana di Wazoo? E’ forse una guida scanzonata alla psichedelia d’annata per giovani utenti della giornata? Forse, e dall’esterno appare soprattutto come un carrozzone affascinante di sperimentazioni emotive e pasticci di coguaro, questo sì, però tecnicamente la sento non come un white russian alla camomilla, ovvero non del tutto terapeutica (come dicono loro).

A parte magari la zappiana filastrocca circense di “Mi pagano per farlo” (da modellare ognuno sulleLa_Carovana_di_Wazoo_2009 insoddisfazioni ridicole che preferisce) che si impunta su un povero somarello, carico di tre nanerottoli di burro e 77 sonaglini a forma di ciccio, che non va nè avanti nè indietro, creando impacci all’incantatore cornuto senza moglie (e perché no?) che tentando di trascinarlo per le redini procede grazie agli sberleffi del pubblico in questa gogna ridanciana essendo stato per troppo tempo pagato “per dire le cose al contrario”. Invece, la quiete apparente garantita dal rarefatto arpeggio vitreo non riesce a distrarci dal pensiero molesto che “12 ore con Guendalina” sono probabilmente troppe, forse si potrebbe alleggerire lo sforzo invitando come terzo incomodo un lanzichenecco riccioluto e bassotto, nel ruolo di falso amicone, anzichè buttarla su quell’andamento ipnotico che usa la nostra fantasia più stellare logorandola con una chitarra graffiante, che infine schiaccia ogni mandolino dando spazio agli errori imperdonabili dell’esistenza, tra astri freddi e ansie striscianti, cantati da un paio di voci che si sollazzano con un languore incoerente. “AmorPsiche” rimette le cose nella giusta prospettiva, anche se preferisce l’Ade all’Olimpo, specie in odore di psichedelia ficcata in un rock ossessivo da Pink Floyd prima fase, tipo “Careful with that axe, Eugene” mentre io “Set the controls for the heart of the sun” e li metto al massimo per far sparire l’ombra dal ruggito cantato e scottarmi un po’ con l’energia delle macchie solari così simili alle quelle di Rorsach, se ci si tuffa con l’I-pod tra i fornelli accesi e le orecchie (non provateci a casa!) “Ti addormenterai e ti stupirai perché martedì non ci sarò”, sarò andato in cerca dei testi composti in Carovana, per poter vivere come te o, con più verosimiglianza, come loro, dice uno che rimpiange che “l’immensità non esiste più”, ed è così a forza di consumarla con desolate ballate teneramente allucinate come “Canzone per vecchi animali”, o con “film senza trama” col cui audio ci si addormenta tra le perplessità di una vita che, tra lente, piccole, ripetute ripartenze, presenti nel brano, stinge grondando colori impastati in un’u-nica colata, dove immaginazione e realtà e ricordi si fondono in un marroncino indistinto “tra la morte e l’amore”, piccola storia nella saga di un popolo estinto, che… “solo un dio invidioso avrebbe potuto odiarli, solo un dio cieco avrebbe potuto amarli”. Mentre, se ci si interroga sul “Come”, si resta intirizziti dal gelo tumefatto post-progressive, che porta un pupazzo cavo a rico-noscere, rauco e accorato, che “non c’è niente dentro me”, e la narrazione sul finale, grazie allo psichedelicume avanzato, si fa ululato abissale e risucchio di polvere cosmica in pozzi molisani, un’appendice vertiginosa in cui si seguono Le Orme d’un varano esaurito. E se provassimo a riempirlo di schiaffi, quel pupazzo? No, per carità, suona bene disperato com’è, come un “Bosco di bambù” virato nella poesia stravolta alla Syd Barrett arrotato slide! (www.myspace.com/lacaro-vanadiwazoo)

La_disfunzioneLa disfunzione fa coabitare il rock con melodie mediterranee modellate su modelli d’autore e concepiscono così omaggi al calore delle lande del Sud (“Terra”) che ci lasciano con le orecchie piene di parlate ruspanti e antiche e le mani piene di spighe e sporche di terriccio. La pesantezza del trattore spinto da una chitarra grassa, ed il “travagghiu do’ ssangue” non nascondono la vista del mare, il mare di Storia da cui è bagnato il cuore del mondo, ed il cambio di tonalità dell’assolo costruito su una scala emoziona, così come l’ardente evocazione del coro a due che si tuffa nei campi affocati. “Il coraggio che non ho” è invece una musicalmente tenue e fatalistica riflessione su una vicenda personale transitoria, “paure e ipocrisie e lacrime (…) questo tramonto dietro ad un vetro corre nel tempo che è già passato”; ecco l’imbarazzo in chiave pop di districarsi tra sentimenti accartocciati tra le alghe secche: “l’odore un po’ amaro, vorrei partire ma come trovare la strada da fare, il coraggio di non amare”. “Illusione” ha un inizio promettente: una chitarra for-micola rock articolato in frasi sode mentre la voce, più sofferta, ritorna su nomi bramati e indis-pensabili e destinati per ciò stesso alla rivisitazione postuma proprio perché troppo caricati di quelle note intense che a volte pare che non funzionino tanto nella vita, ma solo in brani corposi come questo. “Oppure, neanche” probabilmente va valutata insieme al cortometraggio per il qua-le è stata composta, Signor P., diretto da Daniele Proietti e Adriano Natale, presentato al Cinema Modernissimo di Napoli il 27 gennaio 2008 per la Giornata della Memoria e al Capri Art Film Fe-stival 2008, ma ad ogni modo si fa segnalare per la suggestiva costruzione narrativa ed il mantra solare da Buddha di Paestum che il coro ci offre spingendo la mente in capriole di preghiera al Sole. Ai musicisti chiederei: Vi andrebbe di pubblicare il testo sul myspace?

Jnoma sono la risultante di un songwriting complesso che allaccia con disinvoltura e fluidità Jnomainfluenze internazionali come quelle dei Coldplay e dei Muse (due componenti su cinque – il pianista ed il cantante – hanno suonato in un gruppo tribute dei primi, altri due – il bassista e la chitarra solista – hanno fatto parte di una cover band dei secondi) trasformandole, grazie all’im-pulso ritmico di un batterista abituato a portare fin su Stereoclimax ascendenti il battito delle sue pelli, in un sound pieno e ricco di impulsi sotterranei che emergono a turno da una pulsazione ritmica variegata, stimolando sia l’insorgere di atmosfere screziate di assoluto grazie a tastiere sottili ma insinuanti, sia le vibrazioni pompate di un chitarrismo fibrillante che si evolve a carico di strutture a più livelli in cui la visione di futuri sagomati in grattacieli traslucidi di plastica si ac-compagna a passioni sopravvissute alla propria futuribile parcellizzazione farmaceutica. “Non c’è mai fine” si inerpica su una matrioska fatta di eliche concentriche che racchiudono un torrione di vecchi paesaggi dell’anima spariti dal mondo ma conservati in filmati 7D. “Un’illusione che mi consuma e non si ferma mai! (…) Mi hanno detto che c’è l’Eternità, qui la luce non mi troverà… Chi mi guarirà dalla Ragione, che mi dà torto, e non ci prende maaaii!”. L’impronta vocale è netta e senza sbavature, ed il falsetto è solo una figura retorica della dissoluzione in un labirinto di cristalli. “Senza fare rumore” inizia con una tiritera tecnotronica chitarristica doppiata da una tastiera limpida e impietosa che illustra con led sonori gli arzigogoli cyborg d’una civiltà che misu-rerà le emozioni con terapie iniettive di ormoni coatti: “Nella storia di un amante c’è sempre il do-lore: uno spasmo dà fiducia, è un’espiazione… La paura di soffiare e di perdere la passione è fobia per chi vive senza fare rumore”. Il cantato ha un’andamento che presenta rigidità calcolate di stampo teatrale, mentre la chitarra solista allestisce mirabili assoli che sembrano diagrammi aritmici di un gigolò svalvolato recluso in un policlinico militare a farsi analizzare il membro da an-droidi asessuati morbosetti. Notevolissimo, il frutto del genoma di questi Jnoma. (www.myspace. com/jnomaproject)

Gaia_GrooveI Gaia Groove sono un progetto evoluto che da testi e voce impostati sulla tradizione dei night club italiani e su cantautori come Vinicio Capossela, prende l’abbrivio per inanellare, uno appresso all’altro, blues classico e moderno, jazz, folk e frange del rock anni ’70. Non si accontentano quindi di soddisfazioni come quella di aprire nel 2007 il concerto di John Mayall, circostanza già di per sè significativa, ma elaborano con continuità composizioni sofisticate e vistosamente innovative, occasionalmente cantando anche in inglese, come in “Road to Suva”, che infatti si snoda intorno ad una chitarra alla Vaughan, ma prevalentemente vestono di suoni sofisticati e di strutture armoniche gustose testi in italiano effettivamente gigioneschi. A tratti compaiono ospiti anche trombe e sassofoni, ma loro, senza “la paura delle cose più strane – c’è chi non sopporta neanche le rane”, si spingono, con parti vocali mezzo cantate e mezzo narrate, a raccontare gli umori di un “Pipistrello nictofobo” che “non s’è visto mai” ma neanche “si arrende mai!” E’ però soprat-tutto il piano a conferire a qualche brano una patina di languido classicismo jazz degradato in compiaciuta decadenza degna di re detronizzati “tristissimi!…”, forzosamente fiduciosi di “incontrare la donna giusta che non deve chiedere mai ma nessuno ci contava perchè quella sera si suonava solo per me” (“Piazza dell’Immacolata”). Le spazzole della batteria spatolano nelle retrovie, il basso ballonzola sornione e felpato, e tutto l’ensemble biascica “futili ciarle intrattenendo vagabondi e barboni e cantammo sguaiati blues fino anche a scassare i…” Un’altra volta ci si rifarà vivendo tutte insieme “Nove vite” da supereroi del jazz strombazzato: “Cazzi amari sono per la società… e vivo al massimo la mancata sobrietà”. Eppure qui l’eleganza di soluzioni melodiche e armoniche si dispone su un asse che si snoda da Memphis al Texas Flood di Vaughan fino all’ Emilia dei vitelloni felliniani figli dei mungitori di mucche e padri dei cantautori delle balere. I vari blues del repertorio (“Red dirt blues”, “Foggy blues”) comunicano splendide balordaggini da lo-sers, oltre alla notevolissima valenzia tecnica del chitarrista-cantante. Tra questi, “Fungo a colori” è una ballata blues in italiano che viaggia alla ricerca di “un mondo migliore” e che intanto, vagando tra note di chitarra prima punteggianti poi circonflesse, comunque abbondanti come il polline di maggio, si stende con un piglio deciso e imbevuto di sapienza aneddotica tra sobborghi colorati di odorose capanne-funghi in cui alcuni bluesmen freak hanno stabilito la seconda casa. Non è che subaffittate, qualche volta?                         

Il_7 – Marco Settembre

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