Maracas, ermetismi, nostalgia e fegato
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Un gobbo che scavava nella terra mi ha scritto in una chat che “Sporcarsi le mani è come prendere posizione con le opinioni!”.
Forse è per questo che i De Hand in the Middle si chiamano così: loro affondano la mano in mezzo a quel verminaio che è a volte la realtà e ne cavano fuori un brulichio di suoni d’annata che riflettono il pensiero pulviscolare di chi si tiene a galla giusto per la scommessa. I loro componenti hanno nomi che affondano la loro leggenda tarlata in ban-coni di bar di dubbia fama alla frontiera messicana e sembrano tutti meticci alticci, o gradassi che dicono di aver conosciuto Pancho Villa o scugnizzi adottati da genitori del New Jersey che poi sono scappati insieme alla loro pupattola con la macchina di papà in direzione dello Yucatan, strombazzando il clacson alla Dizzy Gillespie. “Joe flies to el limon” è uno sbatacchiare legnoso di percussioni che ospita il bofonchiamento di versi composti da Bukowsky da morto con un armadillo come preservativo, uno swing sbrillentato come un allegrone anni ’50 che balla al circolo bocciofilo coi pantaloni calati ed un vocione rugoso. “Never be the day” è il risveglio tra sonaglini rosa di uno che s’è abbuffato di tartine all’aglio rubate ad un rinfresco di vecchie glorie della U.S. Navy, l’arpeggio è delicatissimo, etereo, e la voce è appena un sussurro che emerge tra i mozziconi di sigari e gli avanzi di cassonetto. “Bake him a cake” presenta una voce da negroide sempre inappagato di minorenni che va ad incontrare le giovani mamme del vicinato dal fornaio, dove la chitarra vien presa da vertigine ma dimostra di saper farsi sostenere “Uhh!” dal clangore delle percussioni e dalla pianola psichedelica strafatta di antidepressivi: commovente l’impiccio convulso con cui si ammorbidisce l’immalinconito bufalone con la pelle rovinata dalle troppe collanine. “Were’s my fucking mule” inizia con questo trascinato lamento men che bucolico e poi propone uno scarponare contadino in una giga scombussolata dalla mancanza di asini che raglino con la giusta intonazione. La consapevolezza di essere tutti coinvolti da una zoppìa iper-bolica rende invece orgogliosi di sè questi impasti di suoni infarciti di frittelle e fagioli neri. “Sandy room” sembra uno spazio chiuso dentro un piccolo motel in cui il proprietario, divorziato, tiene re-clusa sua cognata da tre settimane ormai e in cui, quando scatta il ritornello, le impone tutte le sconcezze che la moglie si rifiutava di fare, e le racconta tutti i programmi televisivi e radiofonici mettendo maracas e parolacce al posto dei messaggi subliminali e sbadigli drogati al posto dei presentatori.
In Citizen Kane (il capolavoro di Orson Welles) i giornalisti nella sala di proiezione restano insoddisfatti del cinegiornale in cui si rende conto della scomparsa del magnate dell’editoria Charles Foster Kane perché la personalità di questo autorevole cittadino sfugge, il filmato dice solo quello che ha fatto, manca insomma qualcosa. Quel qualcosa che Citizen Kane (il gruppo musicale) invece ci mostra facendo leva sia pur velatamente, su un’attualità che spesso ci esaspera: quella dei conflitti interiori mascherati dall’apatia o dall’egoismo, la deriva nel vuoto, la scomoda scoperta di una bassezza condivisa che si esprime in stitichezza emotiva, disaffezione politica indotta, opportunismo senza vergogna, sistematica negazione dell’evidenza. L’ermetismo in queste condizioni, non è certo un rifugio, ma piuttosto lo stigma di un mal di vivere che si esprime con la rinnegata fede in un cambiamento che forse gode a farsi attendere tanto. “Il male bianco” inizia con una fibrillazione triste e penetrante che il brano si trascina a tratteggiare uno scenario in cui anche “ciò che resta” sembra buttato lì a fare i conti col piattume, almeno finchè una tensione decisionista non si appropria del pentagramma e lo porta ad incidere l’insoddisfazione critica sull’equivalente di mille blogs, complice il viscerale e terreo assolo sostenuto da una sezione ritmica tenace. “Assalto alle prime linee” è un sodo e tambureggiante attacco fallimentare, con echi di schermaglie sotterranee elettroniche. “Storie false di separazioni” vive di crescendi drammatici e ondate di risentimenti soffocati da linee di basso pressanti e sfrigolii inquietanti nell’anonimità esistenziale. In “Naufragi”, epigrammatico e netto, si tocca l’apologia del pessimismo così indigesto a chi nega la crisi: “Scopro di essere italiano, dimentico di essere umano”. La desolazione diventa un ritmo andante ne “Il giardino dei rimorsi”, in cui ci si guarda intorno e si commenta senza lacrime, al massimo si tenta un’improbabile bonifica arroventando una chitarra resa paranoide dalle mistificazioni.
Catia Marini raccoglie i sospiri della fine della giornata e ne fa un abbraccio folk o il calore d’una coperta su cui il cane butta una zampa per consolarci (“Jersey Girl”, cover di Tom Waits). “Hard times” dissolve con elegante leggerezza le malinconiche note emerse a piè di pagina facendo un giro d’orizzone sulla propria vita. La confidenza jazzy di queste composizioni deriva dalla schietta sicurezza con cui la voce di Catia intrattiene con cadenza da veterana dello spirito beat e hippy i pensieri che sfuggono cercando di brillare per la loro assenza. I musicisti impegnati nell’accom-pagnamento, perfettamente permeati dell’aura del progetto, dimostrano un magnifico senso del-l’equilibrio nell’assecondare il mood della vocalist, una Joan Baez del riflusso che contempla con cuore caldo ed occhio limpido le forme di “freedom” che ci sono concesse ed innalza con discrezione e fermezza tutte femminili il suo canto di protesta, diretto non tanto contro chi ci ammorba, ma a coloro che hanno orecchie per distinguere, nello sgretolamento delle certezze, la voce di una coscienza che sembra mandare giù il suo richiamo da “El cielo de Irlanda”, con l’entusiasmante applicazione di talenti violinistici che tirano fuori l’anima dalle statue del cimitero dei poeti! La nostalgia per un’epoca che non abbiamo vissuto direttamente ci impregna, riportandoci a giorni in cui il rock viaggiava non solo intorno al country, ma alle countries, coinvolgendo tutti i cittadini di una nazione alternativa che si riconosceva nell’idealismo giovanile pur con alcuni eccessi di contorno. Sarebbe tempo che nascesse una versione aggiornata e corretta di quell’onda, perchè “These boots are made for walking”, come cantava Nancy Sinatra in Vietnam per dare morale alle truppe USA, ma gli stivali non servono solo per marciare sulla memoria di vecchi amanti (come recita il testo), ma sono fatti anche per andare verso un progresso reale e calpestare chi si inventa certe guerre e le combatte col napalm.
Inbred Knucklehead macellano i generi in un pastone tritato che attira gli ascoltatori in una disco per sballati per poi elettrificare le loro meningi con caschi fatti con teste di bue riempite di pallini di piombo e peperoncini, mentre i culoni di uno stuolo di metallare si lasciano trasportare dal ritmo im-presso loro dai fianchi sformati di tre sessantenni proprietari di casinò. E’ indisponente l’irruen-za scoglionata con cui usano lo sperimentalismo fusion per cucire insieme le zoppìe accelerate dello ska con l’oscuro budellismo infernale del metal, confluendo come ossessi nello spasmo rottamabile di un hard core che si gonfia di urletti di doppia libidine e frasi che fanno rivivere ad oltranza i bagordi d’un seccaccio frequentatore di candy girls, che si riduce pelle e ossa per potersi ricaricare con la tequila bum-bum! “Your face says it all” prima brucia i talloni di chi prova a danzarla massacrandoli in un pestaggio da vendemmia delle uova, poi il ritmo si fa reggae al piccolo trotto con un po’ di “pappappappara pappa para”, quindi gli parte un ticchio da peste del metallo, ritorna al reggae col soffio al cuore e chiude con un giro di chitarra da gorgo intestinale dopo un cous cous al fegato mangiato facendo il rodeo elettrico come in “Urban cowboy”. Nel loro nome c’è una testa suonata, indecente tirapugni dalla schizofrenìa congenita, ottenuta attraverso l’accoppiamento di due bestie sorelle, che ondeggia spaventosa sotto all’incedere pesantone del finale di “Whisky Dick”, una citazione che lasciamo scoprire a voi (www.myspace.com/inbred knucklehead), mentre il post-sperimentalismo industrial-progressive di “Worm food” è invece nu-trito dall’ossessivo cha-cha-chomp con cui solo mascelle incrinate da una morsa da falegname possono masticare gli scarti di un fast food dannato costruito per torturare le budella dei pri-gionieri di Guantanamo!
Il_7 – Marco Settembre
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