L’impiastro, la carbonara, le piaghe
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I Diatriba esistono con questo nome dal 1991, ma non hanno speso tutto il loro tempo ad immaginare il botta e risposta serrato tra un uomo e un corvo (come viceversa sembrerebbe far intendere il loro marchio pittorico), piuttosto avranno lungamente discusso se, tra le loro influenze, dovevano prevalere quelle italiche o quelle d’oltremanica (Pink Floyd e Peter Gabriel, addi-rittura!).
Il risultato è una Diatriba sempre aperta (alla ricerca), una formula che unisce il rock più diretto con il perseguimento di atmosfere non banali grazie ad una voce che ben si modula su impasti ramati e ipnotici, a testi che inseguono emozioni vissute attraverso un “Vetro” ed assoli corposi che si pongono come terzo incomodo rispetto alla voce solista ed al controcanto che fa eco dentro alla gabbia di cristallo, una serra dove crescere o meglio vegetare grazie alla luce riflessa. Con un riff molto indie si apre “L’intruso”, seguito da una frase di tastiera che poi cambia tonalità e si avvoltola in un brulichìo di suoni sintetici da psycho-thrill, mentre la voce si presenta ad una povera disgraziata come quella di una vecchia conoscenza che ritorna e che ancora viene riconosciuta e che ossessiona col gusto di chi pensa di aver ragione: uno stalker anni ’80 che forse però abita definitivamente nella testa della sventurata, ma che avrà mai fatto?: “Sono in te, vivo in te, vorresti che andassi via… Ma tu non puoi mandarmi via da te…” “Chiudi gli occhi” ha una dolcezza forse ingannevole, a cui contribuisce l’arpeggio di chitarra ed il solfeggio pianistico da gioco di bimba, ma le esperienze di vita del protagonista suggeriscono la presenza di una magia ignota (fatta balenare dal passaggio di tastiera prog) e di grovigli che l’assolo illumina con effetti poco rassicuranti che il ritorno delle strofe provvede a dissipare. “Icaro” ha un ritmo più sostenuto, la disperazione vola senza rete mentre, al di sotto, anche le percussioni frastagliano l’esistenza. L’inciso serve a chiedere forza al vento (“Sogno ancora, non mi arrendo!..”) ma l’incertezza di un volo in spazi inaccessibili non può essere eliminata solo evitando i raggi del Sole. “Non volo” sembra una ballata più convenzionale, almeno finchè la tastiera non provvede ad alcune sottolineature e la chitarra non si slancia in un assolo liberatorio che è confermato anche più tardi, in un contesto rasserenante, orientato al mantenimento di equilibri essenziali. “La corda” si apre con suoni aperti di tastiera che sorvolano effetti fibrillanti vagamente funky; le te-matiche sono ancora una volta psicologiche: le riflessioni sull’incessante tiro alla fune sono illu-strate dal testo, ma anche da un passaggio atmosferico e vagamente allucinato di tastiera che sorvola i campi di sfida dei due partners come fosse un trascolorare di nuvole rosa carico su un cielo violetto che annuncia polemiche pretestuose. Un vecchio impiastro che conosco, ponderata la compattezza dell’insieme, il tocco di rarefazione, e l’introspezione sublimata in strappi virili, chioserebbe così: “Mica Mario!”.
Gli Sgroove forse non sono tipi che “se la menano”, ma se lo fanno in senso autoerotico, ci riescono anche senza molta classe, perchè evitano gli equivoci e vanno direttamente con le equi-voche, a costo di aiutarle poi a togliersi i panni da suora! Noi li ammiriamo per questo (!?), infatti nessuno si azzarda a dire loro: “questo potevate risparmiarvelo”, perchè loro si spremono tutti invece, e quel che si produce è degno di essere depositato nella banca del seme. Mi permetto di dire tutto ciò senza tema di smentite perchè gli Sgroove sono una molto porn punk-pop band che inizia ad evolversi in un musicalmente calibrato demential pulp all’italiana partendo dai Pistackio-nes che si trovavano nella mortadella di Gaeta sulla fine degli anni ’90. Hanno quindi una espe-rienza anche live che dà modo al guitarist e leader Frank di affermare con spavalderìa: “Io ero così sin dai primordi!” Presenti anche sul web con dei video-remake di Elio e le Storie Tese, gli Sgroove impastoiano gli appassionati con un’atteggiamento guascone che fa rabbia ai capitani d’industria, e con una marea di gadgets che vanno dal tonno ai preservativi, sempre dotati di minuscoli carillon interni che mandano in loop tormentoni come “Turunduruzz” anche mentre uno mangia o compie atti impuri con monachelle di razza. Ma parliamo di musica: quella degli Sgroove è originale non nel senso che fondono Rachmaninov con Alberto Camerini, ma piuttosto perchè, senza cover, si piantano lì e non escono dalla tua testa finchè non ci hanno scodellato dentro una buona quota di melodie orecchiabili composte autonomamente, tra punk caciarone e rock a bombarda. Il riferimento sono gli anni 80 ma attualizzati da un rimescolamento indie che spiegazza professionalmente il tutto. In “Vilnegligenza” la chitarra si attorciglia attorno al manico di un brano che sarebbe storto già di suo; in “TVB” il dettaglio della pasta alla carbonara permette di distrarsi da una serie di erezioni che spaventerebbero perfino una testuggine con gli orifizi murati, figuriamoci una ragazza morigerata e amante della musica dodecafonica! Le ritmiche sono spesso frenetiche e travolgenti, ed il wall of sound sovrasta i benpensanti mandandoli a… spingere, lì dietro la porta del bagno (in modo che anche loro possano cantare “Sto cacando”). L’irriverenza si accompagna ad una convinzione strumentale che irrora le platee di un vitalismo da operetta glam con Marc Bolan nelle vesti del trans Transistor che si accende con lo ska e si spegne quando può tuffarlo in una frequenza bassa, ma… “Bassa moralmente”. Coraggiosi e ben forgiati, gli Sgroove evidenziano, senza francesismi musicali, tutta la maleducazione calcolata dei baci alla francese!
L’aggressività dei Thin Wire Unlaced “acchiumba” perfino i ragni più pelosi, questo loro lo sanno, eppure non si abbandonano a capriole festose giù per ziqqurat azteche come farebbero delle rock star ridanciane dal cuore tenero, no, loro stanno lì in posa, equipaggiati del loro sound velenoso e dei loro grugni da “fino alla fine del mondo” e se si dicono “Bella, fratè”, lo fanno in privato, con un pudore sproporzionato. Ma questi sono cavoli loro, noi li giudichiamo per quello che possono togliere al mondo in termini di serenità con la spuma nerastra delle loro chitarre rugginose e imbizzarrite come degli Elephant men in versione rabbiosa. La loro storia parte dal 2002 ma è avanzata a passi pesanti e trascinati fino ad ora nonostante una pausa di due anni ed i cambi nella denominazione e nella line-up, portandosi dietro in catene un background grunge/ metal ed una bieca vena sperimentale, psichedelica in senso lato, neanche troppo sotterranea, rispetto al flettersi opaco della loro produzione catacombale piuttosto ruvidina. “My dying sun” parte da suggestioni chiaroscurate per poi armarsi, sopra al lavorìo sapido del basso, di un’ir-ruenza ben sagomata sulla personalità del brano, la cui struttura regge all’impatto di balordi armati di mazze proprio per l’articolazione non banale del discorso. Il growl è controbilanciato da sussurri che sono la forma trattenuta di quell’energia che prorompe da allevatori avvezzi a tirar su bestie vendicatrici a pane e besciamella. E’ questo forse “The great sin” a cui si riferiscono? Le pause arroventate da un’attesa ansiosa rendono avvincenti gli snodi elettrici, ed i pinnacoli so-listici conferiscono tratti epici ad avventure che ci auguriamo si svolgano lontano dai nostri fo-colari, almeno finchè non ci decidiamo ad abbrancare bazooka chiodati e andare a cercare di grattar via la rogna dai tronchi umani in mezzo alle piaghe sporche degli orizzonti più furibondi.
“Season” appare il rockeggiante sabba ringhiato nel mezzo d’una stagione invernale densa di vapori tossici, ma c’è un intermezzo raffinato che ci sorprende come un calcio svirgolato sul muso di un coyote blues. “A deaf storm fall” conclude il quartetto base dei pezzi presenti sul myspace con un arpeggio ben dipinto, su cui la voce si fa descrittiva prima di assistere al deflagrare a strappi della tempesta, che ha ingorghi magnetici tali da traumatizzare anche un elettricista killer.
La voce si solleva nel giusto rimpianto di tempi migliori, per poi ripiombare in sinistre evocazioni. Anche qui una interlocutoria fase di quiete fatalistica prelude ad un finale sconfortante ma a suo modo pregno di poesia gotica, che rotola giù da un pendio nerastro slittando su un fango che si seccherà solo il giorno del giudizio.
II_7 – Marco Settembre
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