Scatti di guerra
[ARTI VISIVE]
Il 6 giugno 2009 ricorreva il 65° anniversario dello sbarco in Normandia. A Colleville-sur-mer Obama lo ha celebrato assieme ai fedeli alleati della Alleanza Atlantica a cui torna ad unirsi la Francia dopo decenni di assenza. La cerimonia si è svolta nel cimitero militare che sorge su uno sterminato prato verde coperto da migliaia di croci bianche (ognuna con il nome dei caduti) che guarda dall’alto Omaha Beach.
“C’è stato un tempo e un luogo in cui il coraggio e l’altruismo di pochi sono stati in grado di cambiare il corso di un intero secolo”, ha detto il presidente ameri-cano durante il suo discorso. Nonostante da allora molte altre guerre di portata più ridotta siano state combattute e vengano ancora combattute in nome di principi non limpidissimi, il significato originario dell’evento non è cambiato, e la mostra fotografica Scatti di guerra. Lee Miller e Tony Vaccaro dallo sbarco in Normandia a Berlino allestita presso le Scuderie del Quirinale dal 3 Luglio al 30 Agosto ha testimoniato l’interesse ancora inesausto verso la titanica operazione militare che permise all’Europa di liberarsi dalla morsa della barbarie nazifascista.
Tra gli inviati di guerra che si unirono alle truppe alleate sbarcate sul continente durante il fatidico D-Day in 850.000 unità c’erano Elizabeth “Lee” Miller (1907 – 1977) affermata fotografa che, oltre a quattro anni di collaborazione con “British Vogue”, vantava pregressi contatti con i circoli arti-stico-intellettuali di Parigi, e Michelantonio “Tony” Vaccaro (1922) giovane soldato USA originario del Molise che iniziava la sua carriera di reporter nell’83a divisione di Fanteria col fucile in una mano e la macchina fotografica nell’altra.
Mentre la terribile, per certi versi inconcepibile, realtà da documentare, la guerra totale, proce-deva nel 1944 verso le sue fasi finali a partire dalla dolorosa Operazione Overlord, i due fotografi esercitavano, praticamente in contemporanea, un differente sguardo su di essa ed infatti, nell’al-lestimento speculare ed in successione cronologica, le immagini di Lee Miller fronteggiano quelle di Tony Vaccaro su pareti opposte, favorendo un confronto in parallelo tra i loro diversi stili.
Lee Miller approda sulle coste francesi venti giorni dopo lo sbarco in Normandia, accreditata come corrispondente dell’esercito americano dopo il rifiuto oppostole dagli Alti Comandi britannici. Successivamente prende parte ad alcune delle tappe dell’offensiva alleata, a volte contravvenendo ai divieti delle autorità militari; l’assedio di Saint Malo e la liberazione di Parigi, durante la quale va alla ricerca dei suoi amici artisti di una volta, da Picasso ai surrealisti Eluard, Aragon, Cocteau; attraversa il Lussenburgo e l’Alsazia, entra in Germania assistendo alle ultime sanguinose battaglie, dopo la presa di Monaco ritrae la casa abbandonata di Hitler e l’incendio della sua fortezza alpina a Berchtesgaden, è presente alla liberazione di Buchenwald e Dachau. La sua tecnica matura, unita ad una attrezzatura di prim’ordine le permettono di assecondare il suo approccio surrealista, che le fa accostare la gente comune, dai soldati alle infermiere, dai civili ai feriti, con una sensibilità peculiare che unisce il senso umanitario alla ricerca estetica di composizioni dal valore simbolico.
Tony Vaccaro sbarca ad Omaha ed accompagna poi l’avanzata delle truppe alleate superando diversi ostacoli ed affrontando situazioni estreme. Nelle sue foto sono documentati con imme-diatezza, senza retorica, gli incontri con la morte – la cui rappresentazione pone, come sempre, inevitabili interrogativi di tipo etico circa la pubblicabilità – ma anche la solidarietà tra commilitoni, la devastazione del paesaggio, le condizioni di vita dei soldati, l’accoglienza della popolazione. Gli stessi compiti che Vaccaro affronterà in diverse altre guerre successive, ma che durante la seconda guerra mondiale si assunse per la prima volta, dopo la decisione, per lui ancora più italiano che americano, di provare a raccontare con mezzi diversi da quelli della lingua inglese, da lui non ancora padroneggiata, la tragicità di un momento storico che richiedeva doverosa-mente di separare l’umanità dall’odio e dal terrore con la forza della sua Argus C-3 oltre a quella delle armi.
Alcuni si sono chiesti anche in questa occasione se siano state fatte giustamente o meno pre-valere le ragioni della documentazione storica sia pure di taglio soggettivo su quelle pedagogico-filosofico-linguistiche che evidenziano i rischi della fruizione consumismtica delle immagini di guerra. A noi è sembrato che l’aver conservato le scelte dei due fotografi, come parte dell’apporto personale di due diverse individualità, pur tra qualche riserva, sia servito alla mostra, curata da Marco Delogu e Umberto Gentiloni, con la generosa collaborazione di Reinhard Schultz, a sugge-rire la commistione tragica e ipnotica di segni e coscienze umane con la raggelante matericità delle devastazioni. Non ci si è forse rammaricati della perdita, accaduta per incidenti in fase di sviluppo, dei rullini di Robert Capa, anche lui presente nell’inferno di Omaha Beach (11 immagini leggibili su 106)? Robert Capa era lì, fedele al suo motto: «Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino».
Tra le improvvise e realistiche aperture dello sguardo operate da Vaccaro, accanto ad alcune im-magini di caduti in battaglia – uno semisepolto dalla neve, un altro sotto ad un carrarmato – ricordiamo il bacio di un soldato alleato ad una bambina francese, una piccola folla di altri bam-bini attorno ad una camionetta americana, e “Il ritorno”, scatto toccante, di una compostezza for-se inconsapevolmente classicheggiante, che ritrae un uomo, forse un prigioniero liberato, acca-sciato su un muretto, con la testa poggiata su una piccola valigia, in un raccoglimento spirituale che unisce in armonia forma e contenuto.
La Miller invece, dopo la resa di Berlino, misura il suo formalismo con le atrocità dei campi di sterminio, ma in “La figlia del borgomastro” stempera la morte della fanciulla valendosi della po-stura ambigua di costei, che fa pensare ad un sonno, forse quello della coscienza tedesca, gra-vido di echi nefasti più che delle suggestioni di Goethe e Novalis.
Noi, che modestamente ci sentiamo vicini al movimento surrealista, non potevamo non restare colpiti dalla famosa immagine, che la Miller non scattò personalmente, ma di cui fu regista, che la ritrae nella vasca da bagno di Hitler, nella casa di Monaco del Fuhrer, completamente abban-donata. Cosa può esserci di altrettanto trasgressivo e catartico insieme di una musa surrealista (la Miller fu la compagna di Man Ray negli anni ’30) che fa il bagno nella vasca d’un dittatore morto?
Dopo la mostra, chi lo desiderava poteva assistere sulle terrazze delle Scuderie, alla proiezione (compresa nel prezzo del biglietto) di un film sul tema della Seconda Guerra Mondiale. Il sottoscritto, personalmente, ha visto La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler, nel corso del quale ha potuto “ammirare”, grazie all’interpretazione dell’attore Bruno Ganz, altri “scatti” di guerra: quelli a cui si lasciava andare nel bunker il Fuhrer, furioso con i suoi più fidi collaboratori, quando tentava di convincerli che ci fosse ancora la possibilità di nuove e geniali manovre militari utili a ricacciare i russi fuori da Berlino. Surrealismo involontario e nevrosi terminale.
il7 – Marco Settembre
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