Il teatro canzone dei Pupi di Surfaro
[MUSICA]
Gli storici musicali fanno risalire la forma artistica del “teatro canzone” ai primi anni ’70 a opera di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, ma se scaviamo nella memoria storica del nostro paese possiamo riconoscere degli esempi precedenti agli anni in questione.
Mi vengono in mente i monologhi di Totò, primo fra tutti “A’ livella”, o i brani cantati, recitati e urlati di Rosa Balistreri, non tralasciando i repertori tradizionali dove troviamo infinite forme primitive di “teatro canzone”.
Quest’estate mi è capitato di incontrare, svariate volte, una band di origine siciliana che di questa forma d’arte musicale ha fatto la prerogativa dei propri live: i Pupi di Surfaro, il cui nome racchiude una storia che vale la pena di conoscere.
Il Pupo è una marionetta facente parte della tradizione folkloristica siciliana, personaggi mossi da cuntastori che nelle rappresentazioni dei nostri sei musicisti si trasformano nelle voci dei potenti e prepotenti di cui la Sicilia è satura. Il Surfaro o zolfo è un’altra peculiarità del centro Siclia, noto ai geologi come l’altopiano gassoso-solfifero, dove le Solfatare (miniere di zolfo di origine vulcanica a emissione di gas) erano i luoghi in cui i “Carusi” (bambini che lavoravano in miniera) o i “Piarriaturi”, in condizioni di costante pericolo, estraevano il minerale e accompagnavano il durissimo lavoro con “cantilene”, ridondanti filastrocche che trattavano temi di disagio, sfruttamento e desideri di riscatto sociale.
Il loro repertorio è vastissimo: dalle struggenti canzoni della compianta Balistreri ai riarrangiamenti di gran parte dei lavori musicali e poetici di Giancarlo Curto (poeta siciliano di grande talento recentemente scomparso), dai brani di Ignazio Buttitta fino al più conosciuto repertorio partenopeo. Ma la peculiarità dei “Pupi” sono i momenti di stasi, quando la voce di Salvatore Nocera recita i versi di Antonio De Curtis (Totò), Giancarlo Curto e Bernardino Giuliana (poeta e scrittore sancataldese).
La loro forma di teatro canzone non ha tempi morti, il continuo rimando alla musica popolare tiene il pubblico in costante fibrillazione e gli accompagnamenti della fisarmonica di Michele Manteo rendono l’impatto scenico e uditivo sublime, basta chiudere gli occhi e la musica trasporta la mente in un epoca non troppo vicina e non troppo lontana. Anni che tutta la popolazione del sud Italia ha tracciato nel proprio DNA. Di lotte, sfruttamento e soprusi, ma anche di quell’amore genuino che gli uomini con la coppola cantavano sotto la finestra della propria amata.
Lo show “teatrale” è arricchito dalla presenza sul palco di Santino Ficarra, il pupo numero uno, che comodamente seduto su un tavolo da “putia di vino” (bottega del vino), intrattiene la band e il pubblico servendo dell’ottimo succo d’uva che riscalda gli animi e aiuta a far fuoriuscire la travolgente simpatia dei sei siculi.
Verso la fine del live è d’obbligo l’esecuzione di uno dei brani scritti dalla band: “Don Fofò”, dedicato a un potente politico della zona amico di dottori, preti e pure santi a cui i nessuno può negare un favore.
Uno spettacolo da ballare a piedi nudi per ore, delle musiche da assaporare con attenzione e delle parole da ascoltare con riflessione.
(Foto di Davide Cattoni)
Paola D’Angelo
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