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Scusi la domanda…il genitivo di Gioia?

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[ARTI VISIVE]

rev746611ROMA- Presso gli spazi della Galleria espositiva EXROMACLUB è stata inaugurata la mostra collettiva Gioia, ae. Un fotografo per caso. L’esposizione, a cura di “Sguardo contemporaneo”, collettivo di giovani critici d’arte e curatori formatisi presso l’Università di Roma Sapienza conta sei opere di sei artisti diversi e un video.


Il tema su cui si snoda il percorso espositivo è la GIOIA ,sentimento antico, moderno, universale. Questa è rappresentata nelle sue diverse modalità d’espressione ed ognuna di esse fa riferimento ad un caso della prima declinazione latina: la gioia espressa dal soggetto fotografante (nominativo), quella che appartiene al soggetto fotografato (genitivo), quella condivisa da entrambI (dativo), la gioia osservata oggettivamente nel reale (accusativo), una evocata (vocativo), un’altra colta nella transitorietà del quotidiano (ablativo). Ogni caso poi è affidato ad un artista e corrisponde alla diversità di linguaggio che ognuno ha usato per delineare il proprio concetto di gioia: così vediamo che Nicol Vizioli per parlare della gioia sentita, del fotografo, nella sua Cibele rappresenta una donna nuda, bendata, che danza nel parco, legando questo sentimento ad un’idea di libertà fisica ed emotiva; Alessandro Giordani pone l’osservatore nella condizione di partecipare ad un gioco di due bambine di Katmandu di cui una, con un dito, sembra voler disegnare una figura sulla fronte dell’altra, facendo risiedere la gioia nell’attesa, nel momento in cui il disegno verrà concluso. Il dativo, la gioia condivisa, è affidata invece all’immagine di Tommaso Riva Reflection of reflection of reflection, che raffigura tre specchi sovrapposti su cui si riflette lo sguardo di una donna nel momento in cui viene fotografata da un uomo, lo stesso artista, alle sue spalle. Re born di Emanuela Testa, l’accusativo, gioia reale, si fa percepire attraverso un germoglio in un vaso davanti ad una finestra ed accanto ad una altro vaso vuoto, legando l’oggettività di questo sentimento alla nascita, dimensione che astrae dal quotidiano legandosi ad un senso di possibilità in quanto  punto d’arrivo e di partenza. Tre foto, una ragazza vestita di rosso con un palloncino dello stesso colore, che sembra materializzarsi su delle grigie scalinate probabilmente di un parco sono i testimoni del vocativo e i protagonisti di  Viola porta del rosso nel grigio di Serena Facchin, che sembra voler legare l’espressione del sentimento al contrasto, affidando al soggetto un’aurea di leggerezza negata, dal tempo, allo sfondo. Infine Massimo D’Alessandro declina l’ablativo ponendo in primo piano un banchetto di souvenir, riproduzioni di antiche statue, immagini raffiguranti il papa sullo sfondo di un imponente Fontana di Trevi, costruendo un’immagine enigmatica e rendendo quasi e giustamente labile il confine tra gioia e malinconia.
Un campo, un tavolo una sedia, una tazzina e una ragazza che corre uscendo e entrando nella scena sono invece gli elementi che compongono il video inedito degli Zero- Scene che accompagna la mostra.

Ma se la gioia è declinata per esprimere il suo persistere nel tempo e la sua adattabilità a diversi stati e stadi dell’esistenza umana, essa è usata anche per un aspetto più programmatico, ovvero per riflettere sulle possibilità della comunicazione fotografica e sul compromesso che essa crea tra fotografo, soggetto fotografato e spettatore. Dire che i diversi casi riflettono non solo diverse situazioni ma anche diversi linguaggi fotografici vuol dire ammettere la possibilità e dimostrare l’esistenza di più modi di usare la tecnica fotografica, non relegandola alla sola efficacia descrittiva. Le immagini che compongono la mostra infatti sono diverse per tecnica e per come concepiscono l’immagine. Alcune catturano momenti fugaci, altre mettono in posa, altre ancora lavorano sulla materialità degli oggetti, ma tutte parlano di qualcosa che oltrepassa la semplice composizione fotografica, risultando indicative di un concetto più ampio. Si può certamente discutere sulla profondità o complessità di ciò che dicono, ma non sul fatto che rendono la macchina un mezzo e l’esperienza fotografica un atto d’esistenza che denuncia una propria visione del mondo, onesta o disonesta che sia.
La mostra  riesce in due intenti: quello comunicativo, in quanto gli obiettivi che si pone sono perfettamente comprensibili dall’osservatore che è messo anche in condizione di riflettere su ciò a cui partecipa, e quello estetico. L’unica critica che si potrebbe muovere riguarda la poca incisività del discorso, interessante ma non particolarmente originale, anche se bisogna ammettere che è condotto con accattivante eleganza.

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