Le mani, i manichini, lo scooter e la roulotte
[IL_7 SU…]
Annalisa Pompeo, arpeggiando uno ad uno i cerchi concentrici tracciati nell’acqua d’uno stagno dalla caduta di un sasso lanciato da un hippy immerso nell’autoipnosi, rintraccia i singoli sussulti del fato derivati dai rimbalzi sul pelo dell’acqua di quel sasso, “Nudo spettro del silenzio”.
I testi sono estremamente poetici, anche quello di “Per me”, e la chitarra acustica dell’artista intesse con nitidezza trame umbratili che accolgono i pensieri come vascelli sonori fantasma; “in ogni cicatrice il senso è più profondo”. Una musicista come la Pompeo, a cui il nutritissimo curriculum rende assai più giustizia che non l’appellativo di “cantachitarraia” da lei scelto giocosamente per darsi un profilo artigiano, si rende pienamente conto che chi si sente sospeso in un “Equilibrio fragile”, come quello “del nostro tempo che non ha tempo di vivere”, non può privarsi della po-tenza evocativa di questo pezzo, così addensato sulle pieghe nascoste di un’emotività danzante al plenilunio da permettere che rintocchi di chitarra ovalizzino la luce delle candele; altrimenti “Niente sarà uguale a ieri”, ma sicuramente peggio. Anche in quest’ultimo brano citato, iniziato con un giro armonico da carillon e alimentato dall’inusitata dolcezza del binomio piano-chitarra, le riserve di trepidante affettività si sciolgono nel ritornello pregustando un ritorno al proprio posto, nel cuore dell’amato, così come le mani, veicolo di esercizi spesso meccanici di funzioni umane quotidiane, nel contatto col partner divengono segno di congiunzione spirituale, strumento di un sacrale possesso più pensato che agito: “Ripenso ad ogni attimo vissuto nell’attesa di tornare a sentire il calore del tuo cuore sulle labbra, tra le mani che ti cercano, si sfiorano e ritornano ad essere pensieri” e l’incertezza, sempre presente, rende prezioso l’attimo fuggente: “Siamo il ricordo di paure, di distanze. Lasciami scolpire sulla tua bocca i desideri. Scenderà la notte e niente sarà uguale a ieri”. Immagini soffuse che permettono un’empatia profonda, vestite come sono dai timbri d’una voce che impasta emozioni agitandole nell’intimo di note sofferte abbarbicate su slanci passionali notturni e sublimi.
I Runa Raido con “Elettromanichini” usano una nenia dal sapore provinciale e contadino come impalcatura per costruire un intrico di progressioni e solfeggi chitarristici a cui fa da sussidio vocale un incalzante concatenamento di frasi da manichino di fattoria a cui è stata instillata un’escalation fattoriale alfa-numerico-informatica; con l’avvento dei robot capiteranno anche queste cosacce, alla famiglia del fattore? “Prospettiva Nevskij” (cover) unisce al gelo dell’inverno russo e alle strofe di Battiato un arpeggio teso e contratto che si sviluppa dopo l’apertura allarmata che lampeggia sotto un cielo fosco, e la scarica chitarristica ribelle si stacca dai covoni di fieno imputriditi nel fango gelato e va a far rima con l'”Ottobre” di Eizenstein. La ruvidezza dell’approccio garage rimanda alle cantine e alle tipografie clandestine in cui a Pietrogrado e Mosca i soviet preparavano la rivoluzione. In “Festina Lente” il ritmo è galoppante e la voce noncurante ricorre al falsetto per notificare l’insoddisfazione ed il senso di ridicolo che fa propendere infine per la non partecipazione ad “una festa di quattro contrade – non ho voglia di festa stasera” in cui ogni cantone si fa i suoi affari ed al gioco delle parti sembra tutto prevedibile: “Suona un’orchestrina da lontano, qualcuno agita una mano. Domani poi ti ascolterò…” “Doira” è la cronaca unilaterale dal ritmo andante rock di un incontro freddino tra due ex amanti: “Guardati indietro e piangi perchè non c’è più bisogno di una buona ragione – non ce n’è, una passione – non ce n’è. Guardati indietro e piangi perchè non c’è più bisogno di una uah-uah uah-uah” ed insomma siediti accanto e parlami se vuoi, sarò dolcemente distaccato”, come la voce di questo gruppo che arti-cola ritmi spesso su scale in cui le ripetizioni armoniche suonano come accordi nervosi di un temperamento ricco di semitoni e disinvoltura acidognola sciolta in un assolo lunatico e fluido.
Se Revolution n. 9 è un progetto datato, è datato 2005, ma non una volta per tutte; infatti portano con sè gli stigmi di una Quadrophenia trascinata per il bavero attraverso le generazioni sino a riconoscersi in Paul Weller, superarlo, ed attestarsi con malcelata spavalderia in groppa all’onda del brit-pop più powered. E’ proprio in questi ultimi tempi che questa irridente pattuglia di bellimbusti s’è spinta per un tour fin nel Regno Unito per una ripicca verso gli Oasis. La loro disposizione sul palco, infatti, con la formula del doppio front-man, gli permette di proporre le loro numerose potenziali hit-single da un trampolino eccellente, che gli fornisce lo slancio per raggiungere sia il pubblico dell’indie, sia i nostalgici degli Who. “White line” ad esempio proietta il quartetto e chi li ascolta in vetta alla cattedrale di Westminster a fare il pogo con scarpe di vernice e ciuffi tinti che vorticano sbroccati: “C’mon!” La chitarra è impostata sulla modalità “lavorìo a manetta” tracciando interessanti patterns, mentre la voce fa di ogni esponente della working class uno James Bond sullo scooter con una scorta di chewing gum nelle tasche del trench; ecco la “Rock’n’roll life” con ye-ye più vigorosi ma possibilmente senza pasticche. “You don’t care” col suo ritmone livello base riporta alla linearità soda e rivendicativa dei Velvet Underground, ed è certo che le spruzzate di punk britannico fine ’70’s o di underground newyorkese fine 60’s figurano tra le influenze che fanno grande il ribellismo scapigliato di questi neo-swingati cisalpini, che stanno cogliendo la “Mad chance” di spedire su Londra una wave di ritorno, dopo i tanti tsunami musicali con cui siamo stati investiti attraverso le ere.
Karma Kaul è una compagine di rock che con la plasticità del basso ed echeggianti suoni di chitarra anni ’70 ricerca atmosfere agèe e l’aura gloriosa di modelli come i Led Zeppelin, anche i testi restano permeati da un maledettismo che, solo volendo, potrebbe oscillare tra l’avventura anche sessuale on the road e la deriva visionaria ai confini del mondo. In “Anima”, iniziata con accordi sospesi, la voce convincente sfoggia una reazione d’orgoglio: “Mi hai portato via pure l’anima… Ridammi i miei brandelli, me la ricostruisco da me!” e la chitarra con effetti tremuli disegna conche d’argilla e letti aridi di fiumi coperti da lenzuola strappate come veli pietosi. L’impianto rock dell’intreccio chitarristico si vena di blues nel ricorrente assolo, in “Occhi chiusi”: quando si parla al telefono le parole scorrono più veloci, questa la tesi, “Ascolti la tua voce ma ti sembra di volare in un’altra dimensione; come parlare ad occhi chiusi, con gli sguardi un po’ dubbiosi”; nella sezione centrale resta solo il supporto batteristico ma presto, direttamente da quell’altra dimensione, si riaccende il riverbero della luce del deserto dell’Arizona e di una voce che spiove dall’alto, non al telefono, quella di chi “non è bravo ad ascoltare”, ma esige tributi come la divinità arcana femminile sbucata dal terriccio bollente ed entrata nella roulotte dalla finestra a perseguitare il viaggiatore infilandosi nei suoi sogni selvaggi. Osate, osate!
il7 (Marco Settembre)