Le lucciole, l’eclissi, il proiettore, lo straccio
[IL _7 SU…]
Non è dato sapere se Carla Cocco sia la cocca di qualche discografico, ma ci sembra di poter affermare senza tema di smentite che la sua voce flautata, ben modulata e incastonata in pastosi impasti sonori pop-rock, può di sicuro conquistare non solo i fans, ma anche gli addetti ai lavori senza bisogno di corromperli uno ad uno con cornetti all’albi…cocca.
Le sue tonalità si muovono su e giù lungo il pentagramma mostrando sia sensibilità nell’interpretare le tonalità e le atmosfere più morbide, sia grinta nell’affrontare le impennate più impulsive, come in “Solo lucciole”, in cui l’ugola della Cocco si dispiega in tutto il suo fulgore; in“Deserto bianco” risalta anche il carattere rock non banale della struttura del brano, con la sua introduzione pianistica tremula ottenuta, sembra, con una pianola antica in un angolo di un piccolo bazar del maghreb, ma anche la pul-sazione chitarristica che diventa poi eruzione di un calore emotivo indimenticato (“Ricordo i tra-monti che ho vissuto con te al mio fianco”) proprio perchè insiste su “le mie fragilità”, che rie-cheggiano nelle frasi finali. In “Una carezza, nessun valore” la vibrazione dal tono fatale, cioè la frase grave enunciata dal piano, si sovrappone al ritmo vagamente funky mentre la voce gestisce il tormento della disillusione spezzando le frasi con un pizzico di falsetto. In “Mamma” echi elettronici flebili di un disagio ora superato si trasformano nel riconoscimento della quota di sof-ferenza patita condivisa da chi assiste un malato di anoressia. La difficile esperienza personale della cantante però è stata riscattata quando è stata lei stessa, a sua volta, ad assistere Enrico Papi come corista e solista, a dimostrazione del fatto che chi riceve spesso ha voglia di restituire, anche se ad una simpatica faccia da schiaffi malata non d’altro ma di televisione come il Papi buono (ora ce n’è un altro ben più discusso…)! Le collaborazioni prestigiose, infatti, ed il con-tributo a cause umanitarie completano il quadro di un’artista molto dotata che non dimentica di omaggiare la sua terra d’origine con “No potho reposare”, un pezzo in lingua sarda il cui arran-giamento etereo e sognante mostra il lato più morbido e incantato della sua ispirazione.
I Giochi di Lola in “Piccolo mondo infame” sfruttano una voce che incalza su tonalità hip hop per illustrare le difficoltà di digestione e preparare il terreno a innesti nervosi di chitarra elettrica sago-mata sulle nevrosi contemporanee. Beffardo e cantilenante suona invece l’incipit, ancora alla chitarra, di “Eclissi di coscienza”, mentre il testo è bizzarro e autoironico: “Celo i miei pensieri sotto uno sguardo perso ed apparentemente allegro. Passa il tempo e io continuo a credere di essere diverso…” Il vaniloquio del protagonista si avvita su se stesso in continui saliscendi tonali lungo la filettatura schizomorfa della sua personalità forzatamente disinvolta, in cui molti giova-notti ex spavaldi in crisi potranno riconoscersi. “C’era lei, c’ero anch’io, c’era solo calma piatta, era il mio mondo quell’equilibrio labile, alquanto instabile, come un’eclissi di coscienza” L’eccesso di razionalizzazione conduce all’autocaricatura, che non riesce a concedersi vie di fuga: “Scorgo nuove idee in lontananza ma è solo un’illusione ed io un’illusione fuggirò”. “Disordinatamente” insiste sulle sinapsi che deragliano, perfino pensa a conquistarsi la libertà abbandonando questo mondo “in balìa di quel dio che tutto chiede e nulla dà”, e anche la chiarra, quando non accom-pagna il delirio, capitombola in ghirigori che mettono a testa in giù per far affluire più saggezza al cervello ma col risultato di metterlo di fronte alle sue contraddizioni capovolte. “Un vago ricordo di te” ha un’andamento funky ma anche un testo che rifugge dalle svenevolezze malgrado strumen-talmente le richiami a tratti con un effetto burletta mirato a sbeffeggiare perfino i dolori del gio-vane Werther! Una formula rock che contempla il jazz all’italiana come escamotage per camuf-fare il rock da cabaret dell’assurdo e trascinarlo carponi bendato in un music hall per svalvolati.
I Negroserio accampano giustamente pretese narrative (sono autori di colonne sonore) perchè la loro musica sognante è descrittiva e funge facilmente da sfondo a lente distese di fotogrammi a rilento che appoggiano la polvere del proiettore sui nostri occhi stanchi alle tre di notte e li riempiono della nudità scarna di attimi trascorsi a vuoto in riva al mare d’inverno o in corridoi di ospedali di notte in attesa perenne di capire dov’è che il Tempo mostra il suo spreco congenito e dove la Verità smette di fare quelle facce amorfe quando la scorgiamo sotto il bordo della nostra esistenza sospesa tra ruderi insensati (“La mia Corea – Sax track”). “Non sei pi in vendita” ha un’andamento da blues ballad, galleggiante su effetti elettronici e guidata da una voce che snoc-ciola strofe cariche di parole stanche ed accelerazioni ma poi, durante un viaggio, si libera: “Non hai rimorsi nè complicazioni, non vendi titoli nè obbligazioni. Ti guardi indietro ma forse è meglio avanti che di discorsi ne hai fatti già tanti… Fai la tua figura”, segue assolo di chitarra che scioglie le tensioni d’una vita appena svincolata da maleodoranti residui con una successione di lampi fatalistici. “Ancora un po’” è un pezzo cantautorale da piano bar raffinato, retta su percussioni, su una chitarra chèta e l’immancabile piano che non vuole ingan-nare le signorine ma solo sostituirsi al vento nel portare le parole a destinazione in una situazione ipnotica generata da semplici movenze pigre e feline: “Con quel modo di voltarti, mi fai del male, non so cosa dirti. Resto qui a guardarti, ancora…” Ci si chiede se saranno attimi perduti nell’o-ceano degli eventi indifferenti “…e non chiedo al mare di affogare tutti quelli che conosci tu”, ma poco ci manca.
Miadea dal lato illuminato della sua femminilità squadernata in bell’evidenza, tira fuori i suoi rospi, i suoi groppi in gola mettendo in mostra però un unico brano sul myspace; mastica in strofe veloci le negatività portate dal cambiamento improvviso e tira le somme: “Non sono più me stessa”. Nel ritornello recrimina sui danni causati forse dall’irruzione di un’altra donna all’orizzonte, e ripete dunque: “Non sogni più le mie labbra da amare, non sogni più di me, non sogni più le mie mani forti, le nostre anime…” Sono situazioni rabberciate che non si stendono facilmente, non si riescono a stirare, certe storie diventate stracci portati in bocca da un cagnaccio, e le loro pieghe si ricompongono solo se uno li butta a mare. L’uomo che è stato un Titanic per una tipa, può rivelarsi una Love Boat per un’altra; non so dove ho letto o sentito questa perla di saggezza, forse in qualche puntata di Sex and the City, ma certo non può significare, peraltro, che tutti ci si dedichi ad un rimescolamento continuo di carte ed organi alla ricerca del giusto incastro o del poker d’assi. Ad ogni modo, il pop-rock di Miadea sfoga tutto ciò in un output deciso e corposo la cui orecchiabilità ben depone sulle sue capacità di far centro nella classifica delle hit, oltre che nei cuori di uomini capaci di venerarla. “Amami come vorrei, cercami come vorrei”. Chissà quanti cercheranno di farlo, uuhh; tutti quelli che non correranno appresso alla Cocco!
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