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Vetrate, uno spaventapasseri e l’incudine

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il7I B-mora hanno eletto a loro D-mora il pop-rock italiano, ma non ne hanno fatto una casa per le bambole, ma un box di cristallina purezza delimitato da tastiere aperte sugli orizzonti del mondo come vetrate panoramiche. La voce ferma ma morbida, introduce a testi ispirati da una riflessività semplice, incantata dalla sfericità della matassa dei problemi globali ma anche dall’incavo di un io rilassato: “Alcune volte sono immobile ad osservare il mondo com’è, è dispiaciuto e paranoico e anche un po’ tonto come me...” (“Senti che mondo”).

Gli accordi di piano e tutto l’accompagna-mento sono calibrati in modo da sollevarsi sempre B-Morapiù verso la prospettiva universalistica di chi vuole spendere giusto qualche parola in più per “non far andare giù” questo mondo ma anzi per sollevarlo sull’onda di una tenue ma chiara emozione. Avremmo volentieri ascoltato qualche nota in più sul loro myspace, ma dobbiamo tener conto che i brani dei B-mora vanno a ruba, ormai, dopo le loro esibizioni non solo sui palchi pugliesi ma anche milanesi, a SanRemo, su radio e tv, e loro è giusto che si cautelino. “Semplice emozione” è un’altro etereo vagheggiamento che poi, su un tappeto di finti archi, è pronto a sostenere il sognatore anche sull’orlo di uno sprofon-damento nel ricordo, inducendolo ad interpretare in modo più lieve il repertorio dei pensieri: “Ieri coccolavo i miei ricordi in ogni luogo forse per conoscermi di più”, anche se non ci si può nascondere il travaglio: “Sono rimasto ad ascoltare una canzone che fa male per estrapolarne una semplice emozione”. Il falsetto su cui ripiega il lead singer è il parallelo vocale delle piccole curve tonali prese dalla chitarra, in una proposta che si distingue per la sua ariosa plasticità.

SundownerI Sundowner presentano un approccio piacevolmente cantilenante alla disperazione pur nell’arti-colata sostanza della composizione; ascoltare per credere “Snakes” in cui i momenti e i movimenti si susseguono con un tono fatalista, rattristato dalle contrarietà nonostante la verve ribellistica che forse la partner non sa valutare “Baby cant’you see…”. Anche l’attacco storto e il ritmo arrembante di “Paranoiac” è ostaggio di accordi chitarristici non banali che si ripropongono cercando di esaurire lo spettro delle variazioni possibili grazie ad arpeggi definiti mentre la linea vocale aspetta il momento opportuno per slegarsi dalle forze che la trattengono a stento dallo sbroccare come uno spaventapasseri zingaro dalla testa grossa, segnato dall’avanzamento musicale verso un manicomio di cartone, che giustifica l’ironica e scapigliata attitudine percepibile nel cantato. In effetti la compostezza delle loro melodìe (“Come with me”) è problematizzata dalla verve paranoide e lamentosa di certo grunge o post-rock west-coast, ma per scelta non raggiunge la virulenza; la perizia tecnica è assicurata, insieme ai cambi di tempo, e tutto l’impasto suona vertiginosamente malinconico, come dimostra il primo premio al Roma Rock School Competition, giusto premio alla loro espressività.

Gli Haiku si proiettano spesso acusticamente sotto le palpebre degli insonnoliti per scacciare Haikul’idea del Grande Riposo; hanno infatti dedicato un pezzo a “Karin”, una ragazza scomparsa nel 1986: “Ho sognato i tuoi occhi neri, il silenzio di questo posto, le parole appena sussurrate…” E’ nel sonno profondo che infatti ci avventuriamo su spiagge nerastre, sperimentando in modo più o meno acre la nullificazione estrema, con il suo correlato di echi infestati. Le loro composizioni, strutturate attorno alle immagini ispirate dagli haiku, essenziali poesie giapponesi, sono suadenti, grazie anche all’utilizzo del violino come in “Non sei abbastanza”, ma afferrano con le pinze il senso dell’arrabbattarsi terreno e lo conducono su una incudine progressiva, su cui lo lavorano senza neanche picchiare troppo, portandolo all’incurvatura sonora sonoramente necessaria alla nuova psichedelia. La profondità malferma del pensiero si snoda sul solco dei Joy Division o dei Porcupine Tree, facendo convivere teatralità della voce recitante, piacevolezza armonica e il mistero che impregna i luoghi più disparati in cui lasciamo le nostre impronte. Suoni elettronici, giri di basso e scariche di chitarra concorrono insieme a “vomitare il marcio accumulato durante le tue assenze… Tutto ciò che proponi ora mi lascia indifferente” e questa condizione è a suo modo una imperturbabilità, una atarassìa che il violino incunea con grazia anche nei passaggi più vibranti, mentre la frase ritmica di chitarra nella seconda parte ricorda curiosamente “Starship trooper” degli Yes. Ma “…ogni cosa assume una forma diversa, in questo mattino solitario” (“Cobalto”).

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