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Speroni, camaleonti, mazzuole e punkinari

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L’arpeggio folk comunicativo e decisamente convincente e l’abitudine ormai consolidata a non “parlare più di te” marchiano come se fosse bestiame il brano “Era Novembre” di Attila (Attilio Gabrielli) chitarrista e cantante tra Roma e Philadelphia. “Girare il mondo o girare l’angolo, che differenza fa se poi si torna qua (…) Ma che differenza c’è se ormai non parlo più di te“. Pensieri che a ritmo andante disciplinano la solitudine di novembre, marciando fatalisticamente sulle rovine di un rapporto consumatosi come gli stivali. Anche la ballata country western “Lasciati stringere” è raccontata dalla voce di Attila in italiano, tanto per dimostrarci che non snobba i nostri pascoli e le nostre donne, per quanti impacci esse possano creare usando gli spaghetti. In questo caso la melodia affidata alla voce è da cantautore italiano, mentre è la chitarra a dividersi tra ac-compagnamento stringato e assonanze western. 

“Walking” riflette con le note lunghe di un canto disteso e con il fitto e partecipe arrangiamento Attilio_Gabriellichitarristico acustico, con ottime guarnizioni slide, quel senso di libertà che gira intorno ai ranches e vola sulle freeways, e dovunque sia possibile godersi una scatola di fagioli senza pensare alle sfide con Billy The Kid. Dal Chicago blues alle sonorità di Nashville passando per Memphis ed il Ragtime, Attila snocciola note dalla cadenza affaccendata o a volte sornionamente blues, come in “I ain’t got no woman”, e ci sembra di ricordare quella volta che a quel texano immalinconito tre “bravi ragazzi” di Chicago è stata legata una fila di barattoli agli speroni, mentre dormiva dentro il suo pick up sporgendo le gambe fuori dal finestrino, in quel parcheggio poco lontano dall’aeroporto di Ciampino. Ci piace pensare che Attila continui a tradurre le atmosfere country blues degli States in pezzi italiani senza mescolare le sue armonie chitarristiche con gli schemi di Toto Cutugno, e non ci pare impossibile. 

Enenvolvo con piglio energico forgiano impalcature sonore con un drumming costante ma enenvolvomosso, graffi chitarristici come tappeti ed effetti alchemici distribuiti apparentemente random dentro la struttura, a sottolineare nevralgie che erompono a spirale dal cuore ma si avviluppano nel fegato, come in “Tigri di carta”: “Non mi riconosco più e non ti riconosco più. Consumati fino a gettare gli avanzi. Non è un capolavoro di sensibilità!” In “Camaleonte” la rivoluzione – “vivere altre vite…” – è attesa tra volute di fumo sonoro e anche con un po’ di paura, perchè quando si approssima si fanno sentire anche distorsioni fino ad un precipitare strumentale degli eventi, in cui tuttavia certi camaleonti sembrano riuscire a sopravvivere voltando la gabbana. Ci racconta tutto una voce potente che trova e guasta gli equilibri assecondando i processi interiori di velamento e disvelamento creativo mentre la chitarra scava percorsi sperimentali nella pelle del brano, come eseguendo tatuaggi sull’anima. Secondo gli Enenvolvo, lo leggiamo sul loro Myspace, neanche prima di crepare bisogna dimenticare fino a qual punto gli uomini sono carogne. Bisognerà nel momento supremo vuotare il sacco con tutta l’onestà che non è stata apprezzata. E’ un lavoro che richiede una vita di preparazione, concordiamo. “I piedi” è un discorso intimo tra echi personali, in cui la voce narrante riepiloga tutto ciò che è solita dimenticare “Dimentico facce, nomi o le città sconosciute, nelle finestre rosse i corpi che barcollano, le frasi (…) Dimentico mio padre, i piedi nella terra, la testa sopra agli alberi…” Tra le stanze chiuse della testa, la terra e gli alberi, c’è un violoncello che trasmette un fremito profondo di poesia a tutto il rimuginare che, come spesso accade, permette l’emergere di verità masticate… 

I Viceversa eseguono e promuovono un pop-rock affilato, che mette d’accordo sia i cercatori di melodie liberatorie sia gli affamati di assoli, riff e qualche mazzuola di legno, come in “Che mi viceversadai”, che picchia sollevando vapore anche dalle cosce delle vere e delle false monache: “E’ una follia l’innocenza delle tue parole stampate in uno sguardo. Se nel tuo mondo esiste solo la TV io ho qualcosa che può aiutarti. Ma tu che mi dài? Se lo fai non te ne pentirai!” “Nico” è la canzone grigio antracite d’un tizio in difficoltà “non ti accorgi dei tuoi sbagli” ma “gli sbagli che fai ti si leggono negli occhi” e deve restare “a rifletterci un minuto di più“. Per capire “E dimmi cos’è che sognavi di più, rifletti: la cosa che cerchi sei tu” Dopo la rivelazione del fulcro delle manchevolezze del soggetto in questione c’è una sezione strumentale dominata da un suono come di sirena d’allarme, che parte da un gruppo di note ereditate dai Moody Blues per poi diventare più secco e indie e dissolversi nel finale, in cui il segreto è finalmente dipanato anche per Nico, che ora ha il compito di digerirlo, di non restare con quella faccia sgomenta. “Sei” è una sfida rivolta ai mille 6 di una tipa che non sa scegliere chi essere – anche lei! – e che però lungi dall’evolversi nel 7 che è il mio dominio personale (eh eh!) si fa prendere in giro dalla vena ye-ye del cantante, che lascia partire un ironico “tu 666”, che è diabolico solo per lei che persevera nell’errore “...se sei come sei… Ma che fai, ti alzi e te ne vai?“. L’enigma diventa un’ossessione intrecciata all’assolo di chitarra solista nel finale, ma l’orecchiabilità dissipa la tensione.
In “A lei non piace il Rock’n’Roll”la ritmica segue il titolo e la chitarra solista si scatena lasciando due partiti di pulzelle a scotennarsi tra loro: quelle che non lo reggono e lagnosamente protestano, e quelle che lo cercano e si dimenano sotto al palco. Cosa? Il Rock’n’Roll, ovviamente! 

The Griso con “Panni in lavatrice col caffè” propone un pop-punk cantilenante scazzato, che The_Grisosul finale si fa rock, ed espone un lavoro di basso che prelude ad una conclusione pop, ma sono momenti di una ispirazione che non esita a gettarsi in lavatrice per trovare un senso stropicciato nei panni sporchi che non tutti lavano in casa perchè li trovano in giro nel mondo. Le scariche ed il riff insistito sfociano in un un assolo segmentato irrobustito dal rollìo ben portato del basso. “Sto bene se”, e “Punkinari” sono ben confezionate scaglie di sentimentalismo dalla faccia fresca offerto con il sostegno di allegre strigliate chitarristiche che esprimono con senso della misura il ribellismo insolente delle giovani generazioni a cui mi onoro di appartenere (eh eh!). “Lady Marlene” e “Senza di me” sono ballate la cui dolcezza è il versante disarmato del massive attack dei giovani arrabbiati, le cui riserve emotive sono espresse a volte con un classicismo (l’intro al piano) appena segnato da puntualizzazioni: “Non è semplice tornare a casa, qua, senza di me” rivolte a se stesso, in attesa di un certo fremito, la libertà, la fantasia, accompagnate dalla saggezza di imparare dagli errori.
“La goccia che non manca” è impostata su un riff dal sapore metallico ed un ritmetto accattivante, ma a comporre la costruzione di questa love song c’è una voce sempre comunicativa che pronuncia col cuore in mano – “Stringo forte la magia di averti stella accanto a me che brilli fuori quando vuoi” – parole illuminate dal pop e porte sul manto vellutato di una tastiera larga la quale sembra volerci far credere ad una felicità che da qualche parte esiste.

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