Filippo Timi a caccia di fama?
Capelli arruffati, scarpe da ginnastica colorate, Filippo Timi è un ragazzone che supera il metro e ottanta, lo sguardo intenso e il sorriso a getto continuo. Nell’ultimo film di Salvatores, Come dio comanda, tratto dall’omonimo libro di Niccolò Ammaniti, Timi interpreta Rino un personaggio del tutto negativo ma a vederlo vis a vis non sembra adattarglisi poi molto.
In occasione della presentazione del suo ultimo libro, Peggio che diventar famoso (Garzanti) gli abbiamo rivolto qualche domanda.
“Il libro inizia con un mio tema delle scuole elementari trovato, riportato in modo esatto con tutti gli errori di un ragazzino di quell’età”. Ci dice, aprendo la sua “copia tascabile”, un volume quattro volte più grande del normale e si sofferma su un punto che non riesce a spiegarsi.
“Mi piacciono i cavalli è la mia passione. Ma io a quell’età non avevo mai visto un cavallo, forse solo il mio Miny Pony, che odiavo. Il primo giorno pettino il mio Miny Pony, il secondo giorno pettino il mio Miny Pony, insomma sempre la stessa cosa. Probabilmente avevo saputo che Filippo voleva dire: amante dei cavalli e allora dovevo dire che i cavalli erano la mia passione.
Questo libro è come ero e come sono”.
In effetti, il libro è stato scritto durante le riprese di Come Dio comanda e riprende il personaggio di Filo, l’alter ego dietro cui si nasconde l’autore dalla sua prima pubblicazione Tuttalpiù muoio, libro scritto a quattro mani con Edoardo Albinati, edito da Fandango.
Descrivi il set come un miscuglio di odori, umori, emozioni. Nonostante la telecamera a trecentosessanta gradi l’istinto riesce ad emergere?
Sì. Gli attori bravi lavorano anche con l’istinto, sono spontanei nonostante ci sia dietro una grande tecnica. Gabriele (Salvatores n.d.r.) è riuscito ad unire persone che condividevano il medesimo obbiettivo. Io, Elio Germano, Alvaro, eravamo tutti impegnati a cercare di far vibrare questa storia e forse è questo che ci ha permesso di sopportare la pioggia finta che bagna davvero.
È stato più difficile entrare nel personaggio o distaccarsene?
Entrare. Distaccarsene è relativamente facile, lo elabori, poi prendi le distanze. Entrare in una vita invece è sempre complicato, occorre inventarsi un quotidiano, creare un nuovo sguardo sul mondo.
Hai affermato che non tutti i personaggi che hai interpretato sono umani…
Sì. Alcuni sono sovraumani, straordinari. Sono più umani dell’uomo stesso, terribilmente umani.
A proposito di personaggi sovraumani: quanto sei cambiato da Rosa Tigre, film del 2000, ad oggi?
Ma no, non sono cambiato. Rosa Tigre nasce grazie alla conoscenza con Tonino de Bernardis (il regista del film, n.d.r.) che è molto particolare, se ne frega delle trafile produttive e gira con la telecamera a spalla. Abbiamo scritto questo film che finge di essere un documentario. Sai, bisogna avere il coraggio di girare delle scene con i peli a cinghiale e i tacchi nel centro di Torino. Due o tre volte mi hanno gridato contro. Ed io questo coraggio ce l’ho anche ora.
Non ti rinneghi?
No. Non rinnego nulla. Tu pensa che io tengo ancora i costumi del pattinaggio artistico fatto dalla mia mamma, delle cose anni ’80 assurde. Alla mia prima gara di pattinaggio artistico sembravo Renato Zero, io adoro Renato Zero, ma lui è consapevole, io non lo ero. Vedi, le proprie origini sono cose troppo care.
Dio come sono buono, mi faccio un po’ schifo, devo dire qualcosa di cattivo. Pollyanna deve morire. Così va meglio!
i faccio io una domanda cattiva: Ammaniti ha partecipato alla stesura della sceneggiatura del film, era lì durate le riprese del film, mi dici come ha permesso l’eliminazione di un personaggio come Danilo Aprea.
Lo avrebbe dovuto intereptare Abatantuono in realtà, ma è stata una scelta di sceneggiatura fatta da Ammaniti e non da Salvatores.
Nel libro ripeti spesso il concetto che non siamo i nostri limiti ma quello che riusciamo a fare con quelli che sono i nostri limiti. Ma come sei riuscito a far accettare un tuo grande limite, quello della balbuzie, a teatro?
Da subito ho capito che non sarei mai riuscito a fare teatro se passavo dai canoni classici. Con un’energia pazzesca, con degli incontri fortunati, come quelli con Corsetti che mi ha preso con sé nonostante avessi solo ventun’anni e, nonostante la mia balbuzie, se ne è fregato. La rinascita è stata affermare se stessi. Mi ha insegnato tanto il teatro, proprio il vivermi il momento. Io sono un po’ scafato, quando succede una cosa sporca: giù! Bisogna buttarcisi dentro comunque, il teatro è questo.
Ma hai lasciato il teatro da due anni…
Sì. Mi chiedevano ancora La vita bestia (monologo tratto dal suo primo romanzo n.d.r.). Ma ho avuto una serie di proposte interessanti dal cinema, come quella di Saverio Costanzo (Timi è Zanna, uno dei protagonisti di In memoria di me, film di Saverio Costanzo del 2006 n.d.r.). Ho lasciato il teatro per fare film in cui credevo. Anche se a teatro cuccavo tantissimo.
Però dopo un po’ mi sembrava tutto troppo strano, in scena portavo il mio alter ego e questo devo dire mi è servito tantissimo a superare i miei tabù. Sorridere e ridere del mostro che mi attanaglia da quando avevo tredici anni; ma dopo due anni ho detto: adesso basta!
Ma tornerai in teatro?
Sì, il prossimo spettacolo è una rivisitazione dell’Amleto. Il titolo è: Il popolo non ha il pane, diamogli le brioches, famosa frase di Maria Antonietta. Ci sarà anche una piccola tournèe.
Toccherà Roma?
No, devo testare prima. Ora è più facile che mi prendano, ma lo spettacolo che sto portando avanti è strano e io non voglio che venga comprato per questo motivo. Prima voglio capire che bestia esce fuori.
Ci dai un motivo per cui dovremmo leggere il tuo ultimo libro?
Per sentirvi bene. Se prendono uno come me per fare cinema, tutti possono diventare qualsiasi cosa. Mi hanno anche detto che sono un sex symbol ed io sono felice, ma ti immagini? Lo dicono di me.
Sorride ancora, ci stringe la mano con vigore e firma anche a noi la copia del suo libro. Se Timi è, parafrasando il titolo del suo libro, il peggio del diventar famoso, così forse vorremmo diventare tutti noi.
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