I neuro-chirurghi del Re
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“Zampa di gatto artigliata col ferro / Neuro-chirurghi assetati di vittime / Al portone letale della paranoia…”, questo l’incipit furibondo di “21st century schizoid man”, brano di apertura, o se pre-ferite catastrofe metal-jazzistica, traino di uno degli album più influenti e spiazzanti dell’intera storia del rock, In the court of the Crimson King, un coacervo di malinconie metafisiche medie-valeggianti e rarefazioni solenni ed espressioniste.
Un impasto che può essere sconfortante o angoscioso ma anche lirico e struggente, perché poggia sulla positività dell’innovazione, sul piacere intellettuale di una creazione che sembra incondizionata ed al tempo stesso appare legata alla disciplina dei ritmi accavallati, della varietà delle scale, della rigidità problematizzata delle strutture. Ma non vorremmo allargare lo sguardo all’intera produzione di un autore cerebrale e diremmo machiavellico come Robert Fripp, sin dall’inizio leader e poi detentore del marchio King Crimson; rischieremmo lo strabismo e la deriva, nonostante la coerenza di fondo di questo artista che riesce a sprigionare una esplosività emozionale tutta peculiare proprio per il suo approccio iper-razionalista, paragonato a quello dei chitarristi più tipici, tanto da poter essere definito strutturalista.
Greg Lake, voce solista per “In the court of…” ed in seguito lead singer e bassista/chitarrista degli Emerson, Lake & Palmer, dichiarò, ripensando al 1966: “C’è un pezzo di Paganini troppo difficile da eseguire per chiunque; bene, Bob è in grado di suonarlo”. Dunque, Fripp era un giovane virtuoso, quando nel 1969 cominciavano a svilupparsi sulla scena musicale britannica bizzarre e carnose infiorescenze sonore; negli anni 70 infatti si è portato a compimento e maturazione la sperimentazione germogliata nella seconda metà del decennio precedente: sia sufficiente citare “The piper at the gates of dawn” dei Pink Floyd, pubblicato nel ’67. La pietra miliare dell’edificio progressivo però, “In the court of…” era espressione decisamente meno acerba, e nella ricorrenza del suo 40° anniversario va ricordato che gli stessi Genesis durante le loro prove, disposti circolarmente in una stanza, avevano appeso la copertina del disco dei KC ad una parete proprio per tenere d’occhio costantemente il loro miglior modello di riferimento, un gruppo che “…faceva quello che intendevamo fare anche noi, ma già in grande”, ricorda Peter Gabriel.
Recentemente però Robert Fripp ha stabilito che il suo sostituto ideale in una eventuale ricostituzione di quella edizione dei K.C. sarebbe proprio l’ex Genesis Steve Hackett, che infatti ha già omaggiato quel sound con alcune composizioni chiaramente ispirate ad esso.
Ian McDonald, anch’egli componente della prima line-up dei K.C., ha detto in un’intervista del 2001 che dal disco non si possono intuire pienamente le capacità in chiave d’improvvisazione del gruppo, uno degli elementi più forti della band. Con il terzo ed il quarto CD dell’edizione speciale (acquistabile solo per posta) del cofanetto Epitaph si può invece avere un’idea più definita del calibro dal vivo della band. Anche se la qualità delle registrazioni lascia un po’ a desiderare, “la qualità della musica ed il modo in cui è suonata è evidente… è quello ad essere molto importante, ancor più delle versioni dal vivo delle canzoni più strutturate… Quando lasciai i King Crimson probabilmente non mi ero reso conto del calibro della band”.
Invece nel diario di Fripp, 27/1/1969, si legge: “Invitati degli spettatori alle prove. Successo. Questo gruppo sarà più grande di quanto ci fossimo immaginati”. In effetti, dopo l’eccentrico The cheerful insanity of Giles, Giles and Fripp, in questo trio dal nome simile ad uno studio notarile si inserì il tastierista Mc Donald, si aggregò il paroliere Pete Sinfield, subentrò Greg Lake a Pete Giles ed ecco la formazione inaugurale dei King Crimson in assetto di guerra: il nome scaturì dal titolo della title-track, quindi è Sinfield ad aver piazzato anche in questo il suo zampino, come nell’allestimento dell’ancora rudimentale light-show.
“Avevamo dentro di noi una energia impressionante, quella di chi si aspetta di morire il giorno dopo e in ogni concerto suona come se fosse l’ultima volta”. Questa urgenza drammatica procurerà loro un’accoglienza trionfale da parte del pubblico dell’underground e della stampa specializzata in questa robusta fetta di mercato, l’International Times in particolare.
“Scopo fondamentale dei King Crimson è organizzare l’anarchia, utilizzare il potere latente del caos e permettere a svariate influenze d’interagire e trovare il proprio equilibrio”, dichiarava alla stampa Fripp in uno dei suoi comunicati, con il suo tipico tono professorale e didattico, ma la perizia strumentale governava l’insieme resistendo a sollecitazioni auto-imposte come cambi di tempo, aperture vertiginose di mellotron e urticanti sassofoni elettrificati. L’anticonformismo e la iniziale mancanza di grazie sociali non fecero apprezzare più di tanto a Fripp la sottile depravazione della swinging London, però il suo nervosismo si riscattava sul palco con un inconfondibile stile chitar-ristico, classico ma con una notevolissima ricerca sul piano timbrico: distorsori al massimo, note lunghissime e lievi glissandi di transizione ottenuti manualmente senza l’utilizzo della leva, inoltre semitoni e frazioni di tono destabilizzavano la linea melodica con puntigliosità iniziatica.
In “21st century schizoid man”, la traccia più veemente del disco, dopo un “pianissimo” costituito da poche inquietanti note uscite da un limbo oscuro, compare prima il riff di sax tenore trattato e della chitarra, poi la voce filtrata, disumanizzata di Lake scaraventa l’ascoltatore in un futuro di schizofrenia apocalittica dove i peggiori disastri e crimini vengono illuminati da immaginari lampi elettrici veloci come le svisate di Fripp, che gettano ponti malfermi tra scale ripide percorse da truppe irregolari spinte da una sezione ritmica precisa e marziale.
E’ Fripp con due chitarre sovraincise (sul disco, non dal vivo) a far riemergere il gruppo verso il tema principale, su una scala minore di Do con passaggio composto, dopo l’inabissamento nel magma puro. Immediatamente dopo la devastante conclusione di questo brano, attacca invece con leggiadrìa impagabile il flauto protagonista di “I talk to the wind”, il cui testo illustra il disorientamento dell’Uomo in un panorama desolato, in cui ogni resistenza alla confusione dominante appare come una utopistica aporia, un messaggio destinato a restare inascoltato dal vento, con cui parlare è proverbialmente inutile, benché poetico.
Segue la gravità maestosa di Epitaph, che ci trasporta tra le rovine petrose di una civiltà consumata in “incubi feroci”. E’ la sintesi, secondo alcuni, tra immaginario fantastico e duri richiami alla realtà: “Il muro che ospita i graffiti dei poeti si sgretola in anonimi mattoni, ed il sole ghigna spietato tra gli strumenti di tortura”.
Il mellotron, in armonia con questo testo ossianico, carica, insieme alla chitarra, dei crescendo da cui una nota marca di whisky, per musicare uno spot, negli anni ’90 prelevò un frammento abbinandolo al gesto elegante dell’allacciamento d’una cravatta classica.
La seconda parte del disco si apre con l’incanto delicato di “Moon-child”, in cui una tenue ballata descrive i volteggi d’un sogno rinascimentale fino alla lunga improvvisazione in punta di strumenti che dissolve le immagini screziate del giardino notturno in una dimensione indeterminata.
La conclusione è affidata alla magniloquente title-track con le sue strofe dalla cadenza imponente, le quali descrivono le scene ambigue che compongono la visione incerta e screpolata della corte del Re Cremisi, una sorta di circo immorale in cui ognuno recita il suo sordido ruolo, fino alla conclusione, che non sposta gli equilibri, nella stasi generale: “Le vedove battezzano con le lacrime i tristi mattini ovattati / mentre i sapienti preparano una burla / io inseguo presagi divinatori per stare al gioco / Il giullare inguainato in giallo / pizzica le corde senza suonare / e sorride mentre le marionette danzano / alla corte del Re Cremisi”.
Delirio sinfonico e leziosità decadenti per un impianto globalmente non attualissimo, data l’età, ma con un impatto potente di enorme suggestione.
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