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Vaghezze assortite e sperimentazioni mordaci e futuribili

il7
[IL_7 SU…]

il7Paolo Fattorini in un’ampia offerta di cantautori e canali satellitari in cui non tarderà a comparire, dopo aver fatto il pieno sulle radio, dice: “Voglio scegliere“, e sta scegliendo se stesso pensando con affetto al suo pubblico.
Accompagnata da tenui svisate di chitarra in sottofondo, “Fragile”, al di là del richiamo non voluto al notorio album degli Yes e al brano di Sting, ci offre un avanzamento piacevole attraverso riflessioni che vorrebbero essere utili, non le solite speculazioni sui tempi morti. “Stringiti a me se pensi che dissesti e disastri crescono in te, colpa non hai se credi che ti senti più fragile”: un valido appoggio contro i terremoti può dare a qualche ingenuona l’impressione di poter franare in compagnia.

“I veri disastri sono dentro di te, devi chinarti a terra quando vai in cerca di te” L’andamento non è stanco ma si accavalla alla routine dei problemi, se non fosse che i veri disastri sono in agguato contando sul fattore sorpresa, non starti troppo a lamentare se i tuoi genitori pensano a quello che sarebbe meglio per te: anche se tirano ad indovinare, almeno ci provano, non vorrai mica che ci pensino i carabinieri? “Eredità dell’anima che a volte ci soffoca”, quella di mamma e papà, ma anche “La (nostra) volontà a volte è il cerchio di un rettile…”
Ci si appiglia intanto ad una voce dal timbro deciso che nei ritornelli raggiunge qui, anche con l’uso oculato del falsetto, la consonanza con i più ruvidi cantautori, e non è un male, vista la situazione internazionale delle ballate rock. Sostenere l’uno con l’altra arrangiamento e voce è come puntellarsi contro la frana della propria fragile identità, l’adolescenza a volte non si sopporta, si piange e si ride nello spazio di una strofa o di un pomeriggio difficile. Un ippogrifo violento o almeno selvaggio (nome del volto elettronico del producer cantante), in quei casi può sostituire il principe azzurro, chè anche lui s’è chiuso in bagno perché nessuno lo capiva.
“Non ero io quel piccolo topo infetto” “ma tu non stai neanche a sentire, vuoi dormire”. E lui/lei sono invece lì, maturati nel loro speciale stile, un “Tesoro che non cerchi”, in cui una ritmica più sostenuta non distoglie dalla malinconia pop di un’anima punta da vaghezza e poi riscossa grazie ad infallibili linee melodiche, come accade in “Bene mi fa”, quando le aperture segnate dalla tastiera e dalle chitarre liberatorie sembrano sollevare il peso verso altezze in cui esso si stempera in una serenità conquistata a calci sferrati contro scatole vuote di cartone.

(http://www.myspace.com/paolofattorini)

 

Enzo Ferrari, diplomato in canto, ha preparato un set morbido e rilassato. “Enjoy the silence”, cover dell’arcinoto brano dei Depeche Mode, si presenta qui ancora più rallentata, arpeggiata e condita da archi, ma senza la severità romanico-elettronica dei toni di Martin Gore & company. “Words are spoken to be broken“… figuriamoci queste: quando l’aspetto musicale dell’esistenza rallenta dandoci modo di guardarci intorno, la pietà si fa largo fondendosi col silenzio ed i vocaliz-zi lirici. In “Per fortuna”… che ci sei, assistiamo al dispiegarsi tenero di una sorpresa, quella che coglie ogni volta quando si scopre – e non è un sogno – che “Sotto alle lenzuola… c’è un angolo di cielo che mi affonda in un bignè di nuvole… forse sono un uomo piccolo, faccio un po’ fatica a vivere, mi consola il fatto che ci sei… così matta e imprevedibile, aggressiva ma sensibile…” Un coro simil-gospel scalda l’ani-ma dandole quello spessore che permette di resistere ai tentativi di sgonfiamento, insiti appunto nell’imprevedibilità dei destini avversi. Ma dondolandosi nella positività di un romantici-smo che permette di salpare con le lenzuola come vela in ricognizione di orizzonti sfumati, non si può non avere gli occhi brillanti e la musica nel cuore. “Al sud ciak ciak ta” imprime lievemente una movenza tropicale alle forme della Natura, grazie al colore calipso di percussioni che inducono ad una danza cha-cha sotto ad un bungalow presumibilmente non localizzabile nella darsena di Civitavecchia. In “Una bestia nel cuore”, invece, pagina triste, si ascolta la voce di un piccolo pro-feta che ha mancato la previsione sulla presenza costante della sua Lei nel mondo che esiste concretamente, mondo che perciò, nella testa dello sventurato, si allea con quella bestia nel cuore che è l’assenza di quel volto. Cosa di altrettanto prezioso possiamo tenere teneramente tra le mani? L’arpeggio neo-classico di “Gocce di miele” introduce alla dolcezza quasi irreale di un ritornello sottolineato da archi, e da una voce impostata con premura e interrotta da un tenue assolo di tromba “per amarti di più”, con un ritmo che ricorda il reggae ed i momenti ineffabili di semplicità donati da una storia fondata su affinità elettive. “Le labbra con i denti” tuffa l’ascoltatore in una beatitudine di sensualità che “ti sorprende quando non ci pensi” e che vivrà di brividi inconfondibili grazie ad un battito probabilmente insostituibile. Il testo si impasta perfettamente con una voce lanciata verso un prolungamento sacrale di momenti ineffabili, su una piattaforma strumentale tenue ma accordata con l’incanto.

Che giudizio scomposto e infondato si può dare de La carovana di wazoo? Ci appare come un carrozzone affascinante di sperimentazioni emotive e pasticci di coguaro, questo sì, però tecni-camente la sento non come un white russian alla camomilla, ovvero non del tutto terapeutica, a parte la zappiana filastrocca circense (da modellare ognuno sulle insoddisfazioni ridicole che pre-ferisce) di “Mi pagano per farlo”, che si impunta su un povero somarello carico di tre nanerottoli di burro e 77 sonaglini a forma di ciccio, che non va nè avanti nè indietro, creando impacci all’in-cantatore cornuto senza moglie (e perché no?) che procede grazie agli sberleffi del pubblico, ormai confuso anche riguardo al verso del proprio bacino, essendo stato per troppo tempo pagato per dire le cose al contrario. Mi ricorda qualcuno… La quiete apparente invece non riesce a distrarci dal pensiero molesto che “12 ore con Guendalina” sono probabilmente troppe, forse si potrebbe alleggerire lo sforzo invitando come terzo incomodo un lanzichenecco riccioluto e bassotto, nel ruolo di falso amicone, anzichè buttarla su quell’andamento ipnotico che usa la nostra fantasia più stellare logorandola con una chitarra graffiante che infine schiaccia ogni mandolino dando spazio agli errori imperdonabili dell’esistenza cantati da un paio di voci che si sollazzano con un languore incoerente. AmorPsiche rimette le cose nella giusta prospettiva, preferisce l’Ade all’Olimpo, specie in odore di psichedelia ficcata in un rock ossessivo da Pink Floyd prima fase, tipo Careful with that axe, Eugene mentre io Set the controls for the heart of the sun e li metto al massimo per far sparire l’ombra e scottarsi un po’ con l’energia delle macchie solari così simili alle quelle di Rorsach, se ci si tuffa con l’I-pod tra i fornelli accesi e le orecchie (non provateci a casa!) “Ti addormenterai e ti stupirai perché martedì non ci sarò”, sarò andato in cerca dei testi composti in Carovana, per poter vivere come te, o con più verosimiglianza, come loro, dice uno che rimpiange che “l’immensità non esiste più”, a forza di consumarla con desolate ballate teneramente allucinate come “Canzone per vecchi animali” o con “film senza trama” col cui audio ci si addormenta tra le perplessità di una vita che, tra lente piccole, ripetute ripartenze, stinge grondando colori impastati in un’unica colata. dove immaginazione e realtà e ricordi si fondono in un marroncino indistinto “tra la morte e l’amore”, piccola storia nella saga di un popolo estinto, che… “solo un dio invidioso avrebbe potuto odiarli, solo un dio cieco avrebbe potuto amarli”. Mentre, se ci si inteerroga sul “Come”, si resta intirizzito dal gelo tumefatto post-pro-gressive, che porta un pupazzo cavo a riconoscere che “non c’è niente dentro me”. E se pro-vassimo a riempirlo di schiaffi? No, per carità, suona bene disperato com’è! (www.myspace. com/lacarovanadiwazoo).

I Giving for the call (“taken from the language of Stock exchange“, viene spiegato nel myspace) sono Maurizio (voice & programming) e Riccardo (synthesizers & voice), due prototipi di androide musicista rifinito che combinano, campionandoli in pezzi di grande limpidezza, nuove tecnologie e la tradizione visionaria ma sostanzialmente distesa del synthpop più seminale. Il duo propone con indubbia efficacia alambicchi elettronici, tonnellate di tastiere e ritmi sintetici ipnotici che ci offrono la trionfante impressione della invincibilità che attende l’uomo sapiente tecno-potenziato se saprà conservare l’avvolgente crogiuolo di sensi che lo caratterizza a confronto con le nuove genera-zioni di frigoriferi. I giving for the call restituiscono magicamente una vita sci-fi sognante e lucidissima alla magia cristallizzata di una New Wave che cerca un “Return to hold you”. Avven-turosi avanzamenti dotati di malinconica bellezza verso piattaforme digitali della felicità pro-messa, spingono a danzare come robot gioiosi in un “New day” denso di led, a loro volta molecole pulsanti dello splendore del futuro. Dagli anni ’80 lo aspettiamo, ma ancora è in visioni utopiche che percorriamo le lastre trasparenti di strati di rassicurazioni tecnologiche. “I never want to go” è solo un avamposto sonoro di un’arcobaleno di sensazioni che si accenderanno forse più oltre nel millennio, abbagliandoci con la luce realizzata di un progresso autentico che investa tutti come un beneficio astrale. Date un’occhiata al myspace (www.myspace.com/giving forthecall) non solo per l’ascolto dei tre brani in “vetrina”, ma per avere un’idea della strumen-tazione usata, e per un cenno sulla storia di questo felice connubio artistico.

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