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Il_7 sul Big Bang

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il7Forse per un fabbro con tre figli a carico, che abita in un edificio-dormitorio a La Paz il mistero dell’origine dell’Universo non è tra le priorità, nella sua agenda quotidiana, eppure qualche motivo potrebbe averlo, in questi giorni, per preoccuparsi non solo dei problemi materiali ma anche dei problemi della Materia. In effetti, il punto della questione forse non è andare a visitare la mostra sul Big Bang in corso al Museo Carlo Bilotti all’Aranciera di Villa Borghese, ma soprattutto darsi da fare collettivamente sul web, insieme a centinaia di volontari, per creare la giusta agitazione intorno all’esperimento che avrà luogo in Svizzera tra non molto e che grazie al più gigantesco acceleratore di particelle mai costruito, avrà lo scopo di fare un frullato tanto pericoloso da produrre un buco nero capace di risucchiare l’intero nostro pianeta, compreso Marilyn Manson e Umberto Bossi.

Orbene, immaginiamo che tutti voi sarete stanchi della fantascienza che diventa sempre più vera, trasudando da libri, fumetti e film direttamente nella vita vera; però c’è un limite a tutto, finché non lo si supera. Vedremo se saremo in grado, grazie ad un colpo di mano o ad una mission impossible dei più temerari attivisti internettiani, di superare l’ennesimo spettro dell’Armageddon.
Per il momento, la mostra di cui vi dicevo comincia a manifestare i primi segni di uno sfaldamento cellulare che da un momento all’altro coinvolgerà anche le pantofole vecchie di zia Leida e le palme del Sunset Boulevard. Calma, calma, so quello che dico; mi riferisco a quello che è successo ad una delle opere in mostra, e che è dedicata appunto ai buchi neri. La descrizione nella targhetta con la didascalia non corrisponde esattamente all’opera così come appare nella sala ad essa dedicata. D’accordo con l’autore Della Vedova che il cosmo da egli rappresentato sia imperfetto, ma non dovremmo lasciare che buchi neri creati per sfizi scientifici risucchino via pezzi di opere d’arte, altrimenti domani stesso il ritratto del Duca di Montefeltro da Urbino potrebbe magari perdere il cappello e metterlo al servizio dell’Antimateria! Insomma: attraverso alcuni piccoli fori nella trama di un grezzo tessuto artigianale avrebbero dovuto intravvedersi le lettere della scritta al neon “buchi neri”, su un fondo ancora nero rappresentato da un altro tessuto montato su un supporto rettangolare; e invece è rimasto solo il fondo nero con sopra la scritta al neon, ma non resta traccia della tendina?/drappo? che verosimilmente avrebbe dovuto schermare la scritta. In modo simbolico si è voluto quindi minacciare il pubblico di un prossimo drammatico disvelamento della struttura distruttiva dei buchi neri? Il depliant della mostra dice che “la partita dell’esistenza si gioca nel rapporto con l’altro, dove l’altro può anche essere quell’identità misteriosa che chiamiamo cosmo”; ebbene, il confronto tra l’esistenza delle suddette pantofole ed il cosmo può sembrare schiacciante a favore del secondo, ma artisti come Di Fabio, presenti in mostra con una serie di lavori che forniscono con grazia accattivante, il corrispettivo grafico delle strutture genetiche, vascolari, neurali e del DNA (grazie anche alla consulenza di un neurologo) offrono una convincente dimostrazione di come ogni corpo umano racchiude una tale accumulazione di microcosmi ad alto grado di complessità che ci rendono capaci, all’occorrenza, se adeguatamente forniti di immaginazione e sensibilità (due facoltà che indicano non a caso, il tutto e il niente), una rappresentazione di quei “macrofenomeni che riguardano l’uomo ma anche lo sovrastano). James Turrell presenta invece il General Site Plan del Roden Crater (1986): un’emulsione fotografica su carta pergamena con interventi di inchiostro e pastelli a cera di di-mensioni monumentali che è l’output di un lungo processo di ricerca finanziato dalla Fondazione Guggenheim e che si è giovato della collaborazione di architetti, scienziati, astronomi e geologi, finalizzato all’individuazione ed alla resa artistica di un territorio idoneo alle ricognizioni celesti e all’analisi topografica di un suolo che fosse gravido di assoluto, magari in polvere. I pastelli sarebbero serviti ad aggiungere segni della presenza umana in una schiera di pannelli (di cui l’opera si compone) che riproducono la mappa scientifico-enigmatica di ciò che oggi è “avvertibile” là, nel Roden Crater, in Arizona, dove milioni di anni fa c’era un vulcano, e non un buco nero creato dall’uomo sparando particelle gemelle in direzioni opposte e studiando l’effetto-onda di una molecola di “fullurene” (composta da 60 atomi di carbonio!). In attesa di provare l’esistenza per ora solo teorica, del Bosone di Higgs, una particella che consentirebbe alle altre di avere una massa e quindi di rendere l’universo così come lo vediamo e come lo apprezzano coloro che non aspirano all’autodistruzione, andiamo prima che sia troppo tardi al Museo Carlo Bilotti ad ammirare i carboncini e grafite su carta di Robert Longo: un artista che si rapporta alla raffigurazione di forze cosmiche con un’approccio simbolico che lo porta a verificarne l’oscura e primordiale sussistenza (anche psicologica) con forme del potere universale, calandosi in una dimensione politica in cui una esplosione atomica non può che intitolarsi “Mazzo Imperialum”, ideale ricongiungimento tra le immagini allegoriche delle forze naturali prodotte nelle società “primitive” e la tensione concettuale che conduce da un lato gli artisti ad un approccio meditato e asciutto nei confronti dell’ineffabile, dall’altro gli scienziati al freddo ma shakerato vilipendio delle particelle, alla ricerca non della morte dell’Arte, ma speriamo neanche all’Arte della morte, a cui il fabbro di La Paz non ha francamente neanche il Tempo per pensare, e non perché “fa il superiore”!
Le opere esposte e gli artisti coinvolti nella mostra The Big Bang sono di più di quelli qui commentati: visitate la mostra personalmente per scoprire altri misteri, io adesso scappo nel mio rifugio anti-atomico!

 

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