Henry Charles Bukowski, il poeta che non ti aspetti
[L’ILLETTERATA]
Diceva di sé: «Non vi venga l’idea che io sia un poeta». E mentre lo diceva seccava la sua bella bottiglia, seduto in una qualche stamberga di Los Angeles. Perché se per molti il suo nome è legato alla Beat Generation di Kerouac & Company – almeno per la vita scassata che ha condotto e per il suo anticonformismo letterario – in realtà Bukowski brilla in un sistema solare ridotto a una stella, cioè lui, e nessun pianeta. Assolutamente originale, la sua voce non può che associarsi a Los Angeles, la città in cui ha vissuto e da cui ha filtrato il mondo.
Per poco non ci era anche nato, ma all’anagrafe Bukowski è tedesco di Andernach, dove nacque nel 1920 e da dove è emigrato in America con mamma e papà, all’età di due anni. Suo padre non era quel che si definisce un uomo prodigo di tenerezze, e Bukowski lasciò il prima possibile la famiglia, inaugurando quella vita underground, ossia clandestina, dalla quale la sua poetica è imprescindibile. Anni di miseria, lavori “di merda” – come era solito specificare – una sequela di stanze in affitto, bordelli, amanti occasionali per lo più orribili, tanta birra e litri di sudore per vomitare il marciume del sogno americano.
La sua poetica si sviluppa così, dagli avanzi, dal non digerito, dagli occhi ironici e attenti con cui decanta un’umanità di povera gente ritratta con realismo fotografico e raccontata a parole essenziali e asciutte. È la povera gente del “dato di fatto”, sempre e comunque sulla via dell’Inferno, in uno scenario urbano disarticolato e polveroso. Sono scatti intensi e disperati, che l’Europa scopre poco alla volta nelle pagine dei suoi romanzi, da Post Office, il capostipite, personale denuncia sociale nell’assurdo di un impiego regolamentato, sino a Factotum o Panino al prosciutto, racconto comico e amaro di un’adolescenza di solitudine, spesa tra la Biblioteca Pubblica, la lotta contro un’acne devastante che gli ha corroso il viso portandolo all’autoemarginazione, e le cinghiate di un padre violento e depresso.
Narratore in presa diretta e “inviato speciale” sul campo da chissà quale testata, sceglie comunque di narrare anche quando abbandona il racconto per la poesia. Centinaia di poesie raccontano senza retorica la sua vita cupa, definita una «tomba in superficie», butterata dalla quotidianità e con ben poche speranze nel futuro.
Gli piace scrivere quello che capita, e prima di tutto quello che capita allo sventurato Henry “Hank” Chinaski, suo alter ego, misantropo, alcolizzato, che svolge caparbiamente ogni lavoro cercando di terminare il prima possibile, sino a perdere puntualmente il posto. Si parla di allucinanti scopate, padrone di casa che si sbracciano per avere l’affitto, barboni, gente sempre e comunque tradita dal mondo e per questo vicina al cuore umile dell’autore, che consolandosi con la scrittura galleggia tra fame e solitudine.
Non potevo andare a lavorare / stasera perché non potevo / smettere di vivere.
Attraversando le vie di una Los Angeles di cui non ha mai potuto fare a meno, ha messo insieme carne su carne, vetro su vetro, una poesia alla portata di tutti come la fatica di stare al mondo che descrive, un male reale dell’esistere più che dell’esistenziale.
Una poesia è una città piena di strade e tombini / piena di santi, eroi, mendicanti, pazzi / piena di banalità e di roba da bere / piena di pioggia e di tuono e di periodi / di siccità, una poesia è una città in guerra.
Non sono conati o spunti di racconto. I versi, a cui non manca mai il ferro, rincorrono una propria musicalità. Sono brevi o brevissimi nei componimenti narrativi, più estesi per i componimenti in cui l’autore si ferma a pensare, terrorizzato dal fallimento e innamorato dalla vita. Il punto di vista è sempre e comunque umile. Ci sono infatti autori che restano al vertice dei fatti narrati, che restano padroni delle vicende e dei propri personaggi. Bukowski no. I fatti per lui camminano da soli, con le proprie gambe, sono tragedie autonome che vanno avanti dietro alle finestre, nei cessi ingorgati con la porta sgangherata, nelle camerette d’albergo tutte mortalmente uguali. Il nostro amico Hank scosta per noi le tendine e ci porta all’ippodromo dove uomini sbalestrati si strappano i capelli, ci porta ad annusare quel che resta dopo una sana bevuta, con le bottiglie sul comodino e la gente che si ama e si sveglia di continuo negli stessi luoghi. Siamo un po’ guardoni, veniamo messi alla prova. Si tratta solo di un’occhiatina, però, poi Hank tira le tende e lo spettacolo continua con lui che dice, buttandosi in poltrona: «Che volete dalle mie donne? Da Betty, da Jane, da tutte le altre? Non ci provate. Andate a farvi seghe per i cazzi vostri».
Ok, non t’incazzare, Hank. Facciamo comunque il tifo per te. A te che scrivi tra le bestemmie dei vicini, perché la notte densa con le insegne al neon non sia solo per magiare, dormire e tornare a lavorare.
di Devis Bellucci
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