Agora’zein
[IL 7 SU…]
Arrancando faticosamente in un vicolo in salita, gradino dopo gradino, intabarrate in logori cappotti, due anziane tuderti si scambiavano commenti sulla lunga giornata. Giunte al momento di separarsi perchè arrivate al punto in cui i portoncini in legno battuto delle loro case in pietra quasi si fronteggiavano, una di loro, che chiameremo Ermanna, disse: “Ce vedemo domani, se Dio vòle!”, e l’altra, Casimira, rispose: “Se non gne va a lui è silenzio…” La prima chiosò: “Lasciamolo fa’!..” e chiuse i battenti a tripla mandata. Questo è quello che si dice a Todi al crepuscolo, quasi otto secoli dopo che Frà Jacopone ammoniva tutti a pentirsi delle proprie birbanterie.
L’illustre Maurizio Costanzo, direttore artistico del Todi Festival quest’anno, direbbe magari: “Parliamone!” (un suo tormentone evergreen), e allora ecco che il curatore Massimo Mattioli, anche senza aver pensato esattamente la stessa cosa, ha deciso di organizzare una mostra dal titolo Agoràzein, che in greco sta per “andare in piazza (nell’agorà) per sentire che si dice”. Trattandosi però di videoarte, gli organizzatori, nell’assecondare la curiosità morbosa dei pec-catori incalliti e far viceversa pentire chi non apprezza l’arte contemporanea, si sono fatti scrupolo di allestire la mostra non sulla Piazza del Popolo (l’agorà di Todi) ma sotto la stessa, ovvero nelle antiche cisterne romane e negli anfratti sotterranei annessi, non solo per esaltare le sensazioni contestualizzandole in un luogo (le cisterne romane, appunto) carico di Storia e che meriterebbe maggior attenzione da parte del grosso pubblico, ma anche per restituire la videoarte alla sua dimensione underground e per sottrarre la visione di opere marcatamente tecnologiche ai claustrofobici.
Ed è dunque nelle viscere della cittadina medioevale umbra che abbiamo potuto curiosare nel panorama video internazionale ed ammirare ad esempio il mirabolante video “Trip” del giovane cèco Yakub Nepras, molto attivo per tutti gli anni 2000. Si tratta di una carrellata virtuale continua attraverso la mutazione futuribile della periferia di Praga, i cui scorci propongono architetture e creature bizzarre composte tra l’altro da chassiz e scarti di materiali elettronici in scala monumentale. Il prototipo del video alternativo post-industriale, creato con amorevole cura del montaggio grafico delle animazioni, e tale da suggerire un’immagine “meccanica” delle periferie metropolitane, costellata da pezzi colossali di un hardware che serviranno appunto a smontare e ricostruire senza posa quella periferia sostituendola con una virtuale in 3D e scala 1/1 parecchio più pazza e con un soundtrack elettronico che macina tutto ipnoticamente.
“A monk” di Kan Xuan – già presente nel padiglione cinese alla biennale di Venezia 2007 – consiste in tre inquadrature fisse della testa della statua d’un monaco organizzate simmetricamente, ma che propongono le tre immagini a turno, o sincopaticamente, increspate come se fossero viste nel riflesso su uno specchio d’acqua, mentre in realtà è stato il dispositivo di ripresa ad essere messo in condizioni di vibrare, infondendo in questo modo – artificiale, non “naturale” – anima all’inanimato, visione zen che si sovrappone alla “fede” nel medium elettronico.
Sarah Ciracì presenta invece una sua opera del 1999, “Trebbiatori celesti”, in cui uno scrutatore umano dinanzi ad un paesaggio desertico assiste alla venuta di un UFO messianico che con una investitura di raggi di luce proietta su quel terreno arido segni misteriosi ispirati alle forme dell’esoterico “Grande Vetro” di Duchamp forse con l’intenzione di suggerire tracciati su cui edificare nuovi templi in cui l’audiovisivo fondato sul potere visionario dell’occhio, insemini alchemicamente la materia infondendole allegorie a go gò come in una fertilizzazione filosofale che non dimentica le connotazioni agricole di Madre Terra.
A proposito di mappature, la videoinstallazione “Over the noise floor” del duo napoletano Bianco-Valente insiste, con un loop proiettato sulla volta a botte degli ambienti delle cisterne romane, sul contrasto sincretico a livello concettuale tra mappatura geografica e simbolica, che allude ai sistemi odierni di individuazione e navigazione elettronici basati su codifiche e frequenze non più misurabili a spanne. La bolla sonora in cui è immersa e ci immerge l’installazione, invece, restituisce stralci di qualche comunicazione vocale e acustica scambiate tra navi, aerei e basi di assistenza e controllo a terra. E comunque, per chi fosse interessato all’archeologia, nella parte visitabile del sotterraneo, oltre alle opere video, sono visibili ampie note informative scritte sulla storia, la funzione e la scoperta delle due cisterne parallele e mappe oggettive della loro posizione rispetto alla attuale planimetria del centro di Todi.
Il video della belga Sophie Whettnall (anche lei presente alla Biennale del 2007), “Over the sea”, dietro l’apparenza di una passeggiata da turista della stessa autrice, ripresa rasoterra da dietro con inquadratura fissata esclusivamente sui suoi passi, ci conduce con lei in una marcia di espiazione ritmata dal suono dei suoi tacchi sul suolo, e proprio questi tacchi, scomodi quando si avanza non solo tra i vicoli ma anche su sentieri scoscesi e sassosi, forniscono il corrispettivo di un cilicio lungo un viaggio iniziatico che simbolicamente rimanda ai pellegrinaggi ancora oggi compiuti verso S. Maria de Compostela, location del video. E poco importa se la Sophie indossa calze con la riga ed un vestito verde smeraldo: alla fine il suo pentimento la salva, e, con i piedi sulle pietre, sul ciglio d’una scogliera, il suo sguardo si posa sul mare, dove la sua commozione immaginiamo che si sciolga, finalmente. Pensando magari alle offerte di future partecipazioni a sfilate di moda che ora le pioveranno addosso da tutta l’Umbria.
Dal Kyrgystan ci giunge “Revolution”, che è stato a metà settembre trasferito nei locali del Museo Pinacoteca sito nel Palazzo del Capitano, ufficialmente per motivi tecnici (l’umidità nuoceva al funzionamento degli apparecchi) ma sicuramente anche per stimolare i tuderti a cogliere, delle rivoluzioni, solo l’ansia libertaria sviluppatasi durante la Rivoluzione dei Tulipani nel 2005 nella capitale Bishkek senza raccogliere la tensione che invece i due autori Gulnara Kasmalieva e Muratbek Djoumaliev hanno filmato, con camera a spalla, mostrando macchine incendiate, bandiere che sventolano in cima a palazzi, vetrine infrante. Ma è possibile mai fare una frittata senza rompere qualche uovo? Sarebbe fin troppo provocatorio chiedere una risposta alla Giunta Comunale di Todi. Nell’introduzione del video si coglie invece l’altro versante della riflessione tipica di questa coppia di autori: il rapporto tra individuo e natura e tradizione, illustrata simbolicamente da due mani che ripuliscono delle pietre dalla cenere di un fuoco di paglia, riportandole al loro biancore; movimento ottenuto proponendo al contrario la sequenza in cui le pietre vengono viceversa strofinate con le braci spente. La formazione urbana di questi due artisti ingenera in loro un senso di colpa verso la gente comune impegnata a lavorare duramente, e questo complesso, ricorrente negli intellettuali russi, è ciò che li salverà dal baratro della perdizione.
Io scherzo, Jacopone no: il “furore di patimento” tuttora spinge torme di flagellanti a rinunciare all’arte contemporanea.
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