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Il_7 su Fool’s Mate

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[IL_7 SU…]

il7Il punto non è che non ho fiducia in voi, cortesi lettori, ma piuttosto che conosco i miei polli, come si suol dire, ovvero i miei autori beniamini e le critiche che vengono loro rivolte. So che in estate pochi di voi sopporterebbero di leggere

un articolo su dischi pesantoni, massicci e musicalmente prolissi quali sono (secondo certa critica ed un certo senso comune) quelli che certi musicisti ormai agée sfornavano una volta per la gioia di un pubblico forse ancora molto diverso da quello di oggi. Quindi voglio risparmiarvi, almeno per stavolta, sofferenze eccessive, respirazioni affannose e deglutizioni difficoltose, anche se queste non sono certo le mie reazioni dinanzi a certe gemme discografiche.

Mi limiterò dunque a presentarvi un disco prog ma piuttosto light del 1971: Fool’s Mate, di Peter Hammill. Chi è costui, chiederete? Ma bene, avanti, su, facciamoci del male… Peter Hammill è il tormentato ma lirico cantore dell’angst esistenziale dei Van der Graaf Generator, un gruppo progressivo, ma insolitamente aspro, talvolta dal gusto acido, per certi versi conciliabile con il punk, ed in ultima analisi difendibile anche oggi. Ma ne riparleremo.

Fool’s Mate (La scacchiera del folle) è invece un disco di brani brevi, non particolarmente complessi, per lo più intimisti, che Hammill tardò a pubblicare, decidendosi a farlo quando la sua vena creativa aveva da tempo raggiunto uno stadio superiore. L’inizio è affidato ad un’interpretazione ironica della classica pomposa apertura da prog record: Imperial Zeppelin inizia dopo tre toni piatti e lunghi e poi pompa il suo moderato gas grazie ad una ritmica jazzata e ad una tastiera vigorosa da pub, che però nella fase centrale si corrompe andando alla deriva nell’indefinitezza, fino a spegnersi. Il pezzo però si rianima e si conclude con un coro che satireggia la solennità del mitico Zeppelin ipotizzandone un utilizzo pacifista, mirato ad abbandonare la terra nutrita dall’odio e a vivere nell’amore un miglio e più sospesi sul suolo.
Di certo sappiamo tutti molto bene che non funzionerebbe, ma che diavolo: ogni dado va lanciato, e quando torneremo a casa là sotto, potremo dire di averci provato!Candle è una ballad riflessiva sull’estinguersi del percorso della vita e sono i toni severi della voce di Hammill a sostenere il tema mentre l’arrangiamento segnato dal mandolino di Ray Jackson dei Lindisfarne sembra ricercare una serena rassegnazione.
Happy, in un’atmosfera da minuetto del ‘700, raccoglie i pensieri minimali di un amante che sa ben poco di lei eppure si sente felice con quel poco e cerca di dimostrarle qualcosa sebbene il tempo scorra veloce… Solitude (solitudine di qualcuno steso nell’erba alta a guardare le nuvole e le gocce di pioggia, smarrendo la propria fisicità) e Vision (struggente love song con piano e voce di nitore adamantino) sono nello stesso godibile solco di malinconia e pessimismo in cui l’ascoltatore si lascia avvolgere senza deprimersi, ma magari atteggiandosi a Rimbaud dei poveri. La richiesta di leggerezza che oggi tanto preme mal si combina con la scrittura lirica e decadente di Peter Hammill, un artista seminale di cui hanno sentito l’influenza Peter Gabriel e David Bowie: Re-awakening (risveglio) è un mirabile inno sostenuto dallo stupendo organo di Hugh Banton, in cui l’artista reclama il ristoro del sogno come fonte d’un’altra forma d’esistenza, e proclama: “Re-awakening isn’t easy when you’re tired / Don’t push me: I was taught self-expression / when I was a child, and so I see / the best way to be’s asleep”. Sunshine apriva il secondo lato dell’LP con un capriccio jazz-rock un po’ alla McCartney e con il sax di David Jackson sugli scudi e la gaiezza sembra sarcastica considerando l’ambiguità della ragazza del testo: “the fact that you may be owed to someone else / can’t entirely tight your trap”. Child è ancora un pezzo che cattura il vuoto esistenziale e lo riproduce con una chitarra rigida e nervosa, un flauto screziato d’irrequietezza e la voce evocativa di Hammill che riverbera con un effetto eco. Summer song (in the autumn) mette in risalto, alternata alla tonalità standard, il proverbiale falsetto languido di Hammill in una storia d’abbandono che non finisce bene. Viking è un omaggio del cantautore britannico ai vicini di casa dei suoi avi, i vikinghi; cita i nomi di alcuni dei loro capi e ricrea l’atmosfera delle loro lunghe traversate con i piatti invece degli schiaffi delle onde ed altri effetti musicali che trovano ampio spazio in un intermezzo strumentale nebbioso come pochi e carico di una Storia poco nota. The birds, uno degli all time favourites di Hammill presenta un brillante piano tra il classico ed il jazzato in accompagnamento alla voce profonda di Hammill compenetrata nello spirito di un testo davvero stupendo. I once wrote some poems conclude il CD con una nota da poeta maledetto degna del più profondo romanticismo del Thomas Grey di Elegia scritta su un cimitero campestre.

E’ vero, il finale del disco è sicuramente disturbante con quei toni sovrapposti, penetranti e prolungati; fastidioso, ma si riaggancia idealmente alla prima nota del primo brano, che attacca esattamente con quelle stesse frequenze lancinanti, che secondo me indicano sonoramente l’appiattimento di un encefalogramma. Se si ascolta il disco in loop mandando in play il primo brano dopo quel finale, si assiste ad un re-awakening imperiale, ma forse semiserio (che condivido pienamente). Da notare che per questo suo primo progetto solista Hammill poté comunque contare sui soliti fidi compagni Dave Jackson e Hugh Banton e su alcuni ospiti di spessore tra cui l’impareggiabile Robert Fripp.
It’s so Imperial!

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