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Istanbul e Orhan Pamuk

[L’ILLETTERATA]

Dal panorama geografico a quello interiore, il passo è breve: Istanbul, il passaggio obbligato tra due mondi, quello occidentale e quello arabo. Idealmente, da sempre, linea di confine importante, di questi tempi Istanbul rappresenta la Turchia moderna, quella che vorrebbe entrare nell’Unione Europea, ma anche la tradizione millenaria della cultura araba che vive e seduce, nonostante il terrorismo di matrice islamica.


Degli intellettuali del Medio Oriente, forse Orhan Pamuk (insignito del Premio Nobel per la Letteratura 2006, con la seguente motivazione: “nel ricercare l’anima malinconica della sua città natale, ha scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture”) è uno dei più grandi ed importanti esponenti del mondo letterario, e non solo per il conferimento meritato di un premio così importante, ma anche, e soprattutto, per ciò che, nei suoi libri traspare dell’incredibile mondo culturale che si anima dentro di lui.

La prima cosa che salta agli occhi, leggendo un libro di Pamuk, è l’incredibile sapienza che c’è dietro. Sapienza nel senso di conoscenza, ma anche sapienza nel senso del dono di saper dosare e far conoscere agli altri la matrice culturale che c’è dietro al “sapere” di una persona.

Pamuk inizia a scrivere con regolarità nel 1974, ed ha vinto diversi premi con i suoi primi lavori, diciamo, molto naturalisti. Il successo popolare arriva nel 1990 con il romanzo Kara Kitap (Il libro nero) che diventa rapidamente una delle letture più controverse della letteratura turca, grazie anche alla notevole complessità e ricchezza narrativa. La reputazione internazionale di Pamuk cresce, nel 2000, in seguito alla pubblicazione di Benim Adim Kirmizi (Il mio nome è Rosso): il romanzo, ambientato nella Istanbul del XVI secolo, mescola mistero, passione e filosofia, divenendo una culla in cui il lettore prende confidenza con il mondo delicato e appassionato che si cela nella cultura islamica. Il libro è stato tradotto in ventiquattro lingue (in Italia dalla Einaudi) ed ha vinto, nel 2003, il più remunerativo dei premi letterari internazionali, l’International IMPAC Dublin Literary Award. L’impatto iniziale, che in qualche modo può trarre in inganno il lettore è permeato da una strana sensazione di lentezza, di ridondanza, non artificio letterario, ma essenza prima di una cultura davvero distante da quella occidentale, che però lungi dall’allontanare il lettore lo attrae e lo conquista come una straordinaria danza sensuale. Quello che principalmente cattura l’attenzione, è la maniacale cura dei particolari, delle descrizioni, e il minuzioso lavoro di conoscenza della materia e dello spirito umano nella sua veste universale. L’ultimo romanzo di Pamuk, Kar (Neve) del 2002, esplora il conflitto tra islamismo e occidentalismo nella Turchia moderna, ed è anche il primo lavoro dichiaratamente politico di Pamuk. Nel 2003 ha pubblicato un volume di memorie, Istanbul, Hatiralar ve Sehir (Istanbul. Le memorie e la città), dove i ricordi d’infanzia si mescolano alla storia della città, attraverso la testimonianza diretta ma anche attraverso le letture dei giornali d’epoca, le descrizioni dei viaggiatori occidentali o le riproduzioni artistiche della capitale dell’impero ottomano.

La cosa che merita attenzione da parte di tutti i lettori che si avvicinano ai lavori di Pamuk è l’eterno conflitto interiore tra Oriente ed Occidente: l’uno apparentemente schierato nelle sue antiche tradizioni, l’altro come un diavolo tentatore o come un angelo salvatore. La soluzione di Pamuk è la teoria del giusto mezzo: non esiste il bene o la salvezza solo nello schierarsi nel passato o nel rivolgersi verso il futuro, la via da seguire è quella del cuore, quella dell’intellighenzia, quella della voglia di divenire migliori, a prescindere dalla religione e dalla cultura di provenienza.

Questa è Istanbul: terra di mezzo di un mondo che ancora si divide tra Nord e Sud, tra Est ed Ovest, tra i colori della pelle e le diffidenze religiose. Istanbul è un crocicchio, un passaggio che profuma di zenzero e curry, che suona dei richiami alla preghiera del Muezzin e della musica araba che è dolce e sensuale, come i dolci di miele e pistacchio o come le poesie d’amore che i poeti continuano a cantare.

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