La pelle, l’arabesco e gli occhialoni bianchi
[IL_7 SU…]
I Sonix, da Roma, lanciano una sfida, anche senza toni strafottenti, a tutto l’underground losangelino perchè pensano che col loro powerpop e con 5 demo faranno “Cambiare idea” a chi ha manie esterofile. Il loro essere alternativi, infatti, complice la voce femminile, palpitante e con-vincente, non esclude il ricorso a sentimentalismi avvitati che riguardano tutti coloro che non si sono murati il cuore.
“Alle mie domande non sai porre un freno, non sai fare a meno… di cam-biare idea. Non riesco a sottrarmi ai tuoi impulsi latenti, privarti del lusso… di cambiare idea“. Le scariche adrenaliniche ci sono, l’assolo entusiasma, ma con esso, diviso in due parti, si sguazza anche nell’elettronica, non certo confinata solo agli accenni di nuova psichedelia al synth nelle introduzioni. In “Aria” la voce femminile guida l’ascoltatore in un pezzo robusto che cresce al ritmo di un robusto drumming creando un ciclone mosso sul finale non dai sortilegi della carto-mante – così appare la cantante nell’omonimo video – ma dal guitar hero che arrota il vento; un effetto di acqua che scorre, un ruscello di vitalità, e poi un arpeggio delicato con una diversa parte vocale, concludono il brano. “Inutilmente” è invece la ricerca di acqua nel deserto tra note che però suonano notturne, ed è evidente che cercare al buio non è più facile che “sentirti ancora sulla pelle” quando l’assenza detta le regole alla tenerezza d’un amante desolato. Si infiltra nell’arrangiamento, poi, una chitarra quasi spagnoleggiante che nel bridge trova più spazio, sullo sfondo di percussioni mosse e variegate, e serpeggia fornendo un appoggio morale ad un’animo che ha smarrito l’equilibrio. Il finale è appunto una curiosa e passionale commistione tra alternative e musica latina, che arricchisce il bagaglio linguistico del gruppo. Ne “Il silenzio” iniziali gocce di malinconia stingono le parole di chi, in bilico sul limitare di una storia, chiede una definizione delle situazioni. “Soffro il silenzio… Aspetto che tu ti decida a spiegarmi ma (…) insisti a ignorarmi“. E’ sensibile il dramma grunge del corto circuito comunicativo, ma anche qui una sezione centrale crea una bolla di quiete ipnotica d’isolamento prima che l’invocazione ossessiva di una spiegazione razionale, magari non ipocrita, giunga da quel volto che si è a lungo amato.
The Kasma stanno registrando il loro primo Ep autoprodotto in vista dell’edizione da parte di una radio belga, e questo vuol dire che il mercato, quello grosso, inizia a muoversi intorno ai Kasma, anzichè aspettare che i Kasma, concerto dopo concerto, raggiungano anche il pubblico del Ban-gladesh! Le influenze sono infatti tanto ampie da far pensare che intendano circondare le nostre orecchie con un’esperienza musicale altamente composita, che va oltre l’indie e gli ammiccamenti al brit pop. Due vocalist chitarristi e la sezione ritmica infatti si lanciano in un assalto piuttosto epico in “Dismissal for the moment”, in cui le chitarre sono come lance in resta, prima che il ritmo rallenti e che alla voce profondamente malinconica faccia da tormentato contraltare l’arabesco fatale della chitarra solista. La voce è molto comunicativa ed impiega a tratti anche teatrali accenti in falsetto in mezzo alle note lunghe della parte vocale. Peccato che l’ascolto sul myspace sia limitato a questo brano, che peraltro si stoppa da solo senza motivo poco oltre la metà, e al clip di “Paint this silence”, sostanzialmente una ballad ma con un energico strappo fi-nale con la chitarra solista che si intarsia ben angolosa sull’impasto rock. Insomma, per quello che è dato ascoltare, una proposta molto espressiva, dai toni drammaturgicamente coinvolgenti e tecnicamente ben provvista.
The Surfadelics sono ben oltre la linea di galleggiamento, sembrano decollare oltre i riccioli di una spuma di mare biondastra come una californiana passata e ripassata da un apache di mez-z’età con gli occhialoni con la montatura bianca alla Elvis miope, che si chiama “Blow John” e che ha un gran fiuto per gli affari con le gnocche. La velocità esecutiva è determinante in questo pez-zo strumentale in cui un tono da bassifondi di Hollywood si affaccia qua e là, tanto per proble-matizzare l’atmosfera. “Bye bye bamboo” ha anch’essa diverse fasi, affidate alla vena virtuo-sistica dei musicisti, intenti a rivisitare sonoramente le varie tipologie di trip che si possono speri-mentare in un hotel a tre piani fatto solo di bamboo, in cui tutto il personale o è ubriaco di gin-fizz o dorme in piedi russando con canne rigorosamente di bamboo infilate nel naso. Potremmo a questo punto consigliare ai Surfadelics l’ascolto di “Cannibal Surf Babe” dei Marillion, ma loro ci risponderebbero tornando in Italia con “Bella ciao”, di cui hanno eseguito la imprevedibile cover senza pensare ai cannibali, ma solo ai pescatori di perle della Papuasia che hanno lottato duramente per liberarsi dalla dittatura di collanine e tatuaggi che oggi tutti vogliono portare, a quanto pare… La tristezza della parentesi bellica in variazione blues è però limitata alla parte centrale, una divagazione fuori dal tempo, e la presenza di un andamento alla Animals rende l’atmosfera del pastiche ancora più ragguardevole; nel finale però c’è la ripresa, ed è una cele-brazione a tarallucci e whisky con un quadro di Gaugin usato come insegna dello stabilimento balneare.
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