Pellicole graffiate, alghe secche e bombe rock
[IL_7 SU…]
In “Walk in the Sun” dei Just What we Need una chitarra atmosferica delinea un paesaggio frollo intrecciato ad una desolazione che aspetta di vedere una qualche forma di reazione, e questa arriva sotto forma di una vecchia pellicola graffiata dove i componenti del gruppo giocano con biglie magiche in un deserto concavo e sfocato. La voce interpreta con partecipazione una situa-zione oscillante a mezz’aria ed illuminata solo da un Sole che vomita miraggi.
In “How many days” prima la viola e poi la chitarra in sottofondo punteggiano di fibrillazioni e di accorati sbobi-namenti pensieri che cercano di scorporare i rimpianti lungo un cammino costante indicato dal ritmo ma senza meta in campagne dinamicizzate da un bisogno di fuga. Il post-rock malinconico dei Just What We Need si fa ancora più cheto in “Black skin”, prevalentemente una quieta riflessione su come si possa accettare che certi discorsi sbagliati non cambino mai, per poi, a partire da un giro di chitarra più ombroso, sollevarsi a tratti in passaggi più sostenuti in cui la pacatezza serafica lascia spazio ad una ribellione armonica soft grunge. “Keep on to fly” grazie all’allargarsi concentrico di piccole gocce sonore chitarristiche nell’aria e alle distese strumentali dominate dalla grazia della viola, è una sognante ricognizione aerea di luoghi in cui ci si è incontrati traendo reciprocamente profitto dalle proprie disposizioni d’animo, creando condizioni dello spirito che andrebbero ricreate con l’ausilio di voli lirici come questi. “Where the trees are greener” è un’altra tenue ballata ispirata dalle splendide fragilità della natura e resa preziosa dal serpeggiare di svolazzi onirici profondamente incisi dalla viola e da contro-canti interessanti più spinti del solito che spargono una vaga inquietudine. Aspettiamo con interesse il loro primo CD, “The eye of the day”.
I Violapolvere con un’attitudine electropop miscelano agili melodie con una diuretica propensione alla fluidità delle emozioni, e questo è dimostrato in modo oggettivo e lampante già da due pezzi come “Feel happy” e “Sommersi”. Nel primo l’imperturbabilità dei quattro musicisti viene ad imporsi sull’ossessione di “un tempo che non posso fermare”, di modo che il ritmo non si arresta nè si impiglia su croste nevralgiche ma avanza libero tra la garbata effettistica post-psichedelica e la venatura funky dell’arrangiamento. Nonostante le immagini non banali snocciolate nel testo (“Vorrei vedermi danzare attorno ad un fuoco che senza calore consuma un diario tra luce e rumore”) creino un antefatto di pensieri persi in rarefazioni del “cuore che brucia nel petto” (e le motivazioni sono nel bridge) un compiaciuto senso di indipendenza echeggia iterato a sottoline-are un afflato liberatorio che si libra al di sopra delle polveri comuni e si sparge come una por-porina lucida su una serie di sensazioni mediamente incantate. Nel secondo brano, “Sommersi”, la programmazione ricorre anche ad una tromba virtuale per alimentare il sogno fusion di un collegamento indolore di attimi sospesi in un ricordo felicemente sublimato: “Noi siamo stati invano nascosti nei nostri giochi intensi, sommersi senza sentirsi persi”; il turbamento della nostalgia, trascinata anche in un autogrill, si ammortizza in “progetti di stereo-musica per rimane-re sommersi…”, in cui ci si può lasciar sommergere come in un fluido amniotico nel quale la voce in galleggiamento, quasi alitando lunghi respiri, evoca con classe placidi ricordi.
La Disfunzione fanno coabitare il rock con melodie mediterranee modellate su modelli d’autore e concepiscono così omaggi al calore delle lande del Sud (Terra) che ci lasciano con le orecchie piene di parlate ruspanti e antiche e le mani piene di spighe e sporche di terriccio. La pesantezza del trattore spinto da una chitarra grassa, ed il “travagghiu do’ ssangue” non nascondono la vista del mare, il mare di Storia da cui è bagnato il cuore del mondo, ed il cambio di tonalità dell’assolo costruito su una scala emoziona, così come l’affocato coro a due che si tuffa nei campi affocati. “Il coraggio che non ho” è invece una musicalmente tenue e fatalistica riflessione su una vicenda personale transitoria, “paure e ipocrisie e lacrime (…) questo tramonto dietro ad un vetro corre nel tempo che è già passato”, ecco l’imbarazzo in chiave pop di districarsi tra sentimenti accartocciati tra le alghe secche: “l’odore un po’ amaro, vorrei partire ma come trovare la strada da fare, il coraggio di non amare”. “Illusione” ha un inizio promettente, una chitarra formicola rock articolato in frasi sode mentre la voce, più sofferta, ritorna su nomi bramati e indispensabili e destinati per ciò stesso alla rivisitazione postuma proprio perché troppo caricati di quelle note intense che a volte pare che non funzionino tanto nella vita, ma solo in brani corposi come questo. “Oppure, neanche” probabilmente va valutata insieme al cortometraggio per il quale è stata composta, Signor P., diretto da Daniele Proietti e Adriano Natale, presentato al Cinema Modernissimo di Napoli il 27 gennaio 2008 per la Giornata della Memoria e al Capri Art Film Festival 2008, ma ad ogni modo si fa segnalare per la suggestiva costruzione narrativa ed il mantra solare da Buddha di Paestum che il coro ci offre spingendo la mente in capriole di preghiera al Sole. Ai musicisti chiederei: Vi andrebbe di pubblicare il testo sul MySpace?
I Jeremeas di Daniele DeGregori garantiscono all’ascoltatore deluso dall’anemico cantautorato d’imitazione un approccio solido e incisivo che unisce a testi intelligenti un impianto rock di robusta costituzione. E se pure le vicissitudini all’interno alla band hanno imposto al gruppo alcuni cambiamenti nell’organico, i due pezzi esposti nel MySpace, eseguiti uno dalla vecchia e l’altra dalla nuova formazione, condividono lo stesso elevato livello di pastosità, anche se il primo, “Cassandra” ha una struttura un po’ più complessa, che parte da un incastro chitarristico ma si snoda subito su un riff massiccio di sottofondo ritmico con il basso abile a scavare negli interstizi e con la punteggiatura che segue la duttile fermezza della voce del leader: “Sbaglia solo chi sa già cos’è giusto, voglio sapere, voglio sbagliare… Io come tutti non ti ho mai dato ascolto, voglio provare”. Il brano poi si stempera con una apertura sonora favorita da una tastiera nel ritornello, in cui la voce si dispone ad ascoltare la verità e successivamente a plasmare il suo destino: “So che sai che ne farò di me. Possiamo ingannare quel futuro che non crede in me… che non vedo...” fino a quando l’andamento si fa ossessivo e insaziabile nella sezione finale, in cui si reclama avidamente la possibilità di “Cambiare scelte che non ho deciso… ancora!”, per poi concludersi con la vertigine di un paio di fughe a capofitto. “Little Boy” è forse più diretto e omo-geneo, ma ha in compenso il pregio irriverente di distorcere in senso fumettistico la drammaticità esiziale dell’Enola Gay, il caccia-bombardiere americano che sganciò su Hiroshima “il ragazzino” ponendo fine alla seconda World War. Il punto di vista del brano è quello delle vittime, ma il tono è quello commediografico degli yankees. Considerati l’impostazione blueseggiante dell’avvìo, il ritornello allucinato e sarcastico vagamente rockabilly e l’assolo splendidamente contorto, si può immaginare come per questo nuovo parto i Jeremias si attendano giustamente un consenso pubblico (“Sorridete, avanti salutate “Little Boy” (…) Tutti in piedi, che alla pace nessuno sfuggirà!”) perfino superiore a quello di “Cassandra”, ovvero proporzionato ad una bomba rock (vincitrice del premio “Sponsors” del Roma Music Festival 2007 come miglior brano originale) capace di produrre una roboante alba artificiale solo nel curriculum musicale!
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