Andrea Baracco per ”Interno Abbado”
La Compagnia ITermini nasce nel 2002 e nel giro di pochi anni colleziona una serie ininterrotta di importanti riconoscimenti che la impongono all’attenzione del panorama del teatro emergente. Ultima conferma del loro talento è l’assegnazione del Premio MArteLive Teatro Tour 2008 per “Interno Abbado“, in scena dal 2 al 12 ottobre al Piccolo Teatro Iovinelli. In occasione del debutto abbiamo incontrato Andrea Baracco, regista ed autore dello spettacolo.
Allora, Andrea, qual è il segreto di questa formazione pluripremiata?
Ciò che funziona di questa compagnia è il fatto che siamo fondamentalmente cresciuti insieme, frequentando i corsi dell’Accademia d’Arte Drammatica dove si è formato il gruppo storico, composto da me, Giandomenico Cupaiolo è il protagonista di Interno Abbado – e Roberto Manzi. Abbiamo scoperto insieme un linguaggio teatrale comune e ogni volta che affrontiamo un nuovo lavoro riusciamo subito ad intuire qual è il registro entro cui muoverci, sappiamo con certezza cosa NON vogliamo fare, senza nemmeno il bisogno di dirlo. Quindi nel corso delle prove, comunque estremamente lunghe e faticose, possiamo dedicarci completamente a scoprire quello che invece VOGLIAMO fare. Nel tempo, ovviamente, è nata anche un’amicizia profonda e fraterna, basilare per una comprensione umana che rende il lavoro ancora più costruttivo. Per “Interno Abbado”, inoltre, è stato assolutamente indispensabile il lavoro svolto da Giulia Dietrich, assistente alla regia.
Nello spettacolo ci sono molti momenti divertenti, ma la risata che provocano è amara, agghiacciata dalla follia, dalla solitudine e dal dolore del protagonista. Com’è concepito il rapporto con l’umorismo?
La dimensione del ridicolo è presente in quasi in tutti i nostri lavori perchè rappresenta un lato molto umano e quindi molto tragico dell’esistenza. E’ una chiave per andare a fondo nelle umane debolezze, svelare il lato oscuro di tante problematiche senza prendersi troppo sul serio e in effetti molti grandi autori tendono ad esprimere considerazioni amare passando per il comico, piuttosto che per il melodramma. Per questo abbiamo giocato con la chiave del grottesco anche affrontando Pirandello, Pinter e persino Sofocle. Il primo approccio non è mai quello di decidere che tipo di operazione andare a compiere, per questo non cerchiamo di costruire a priori qualcosa che tiri la risata ma se durante le prove, anche involontariamente, avviene qualcosa di buffo cerchiamo di formalizzarlo ed inserirlo nello spettacolo. Il lato comico quindi si definisce spontaneamente, costruito sulla giustapposizione di elementi stridenti che provocano però un riso amaro. Se penso a Charlie Chaplin, Buster Keaton, Peter Sellers fino ad Alberto Sordi e Totò, mi vengono in mente maschere di una tragicità disarmante, esilaranti perchè a loro volta giocano sul ridicolo.
Sicuramente influisce molto anche la naturale simpatia del dialetto in cui il monologo è recitato. Perchè proprio il pugliese?
La questione del dialetto nasce dal discorso più ampio della performatività teatrale. Il testo, cioè, nasce in italiano ma durante le prove si è naturalmente trasformato in mano all’attore. Giandomenico è pugliese, di San Severo in provincia di Foggia, e dovendo raccontare la storia di un interno familiare di estrazione basso popolare è stato per lui un riflesso assolutamente spontaneo risalire al proprio dialetto.
Ma il testo avrebbe funzionato anche in altri dialetti?
La storia che racconta Rosa Abbado è, in realtà, assolutamente meridionale, magari di qualche anno fa. Personalmente ho vissuto quasi 25 anni in provincia ed ho potuto sperimentare una realtà tipica del centro-sud, fatta di paesini labirintici, in cui l’intimità è continuamente sottoposta a sguardi indagatori e tutti sanno tutto di tutti. D’estate le persone portano le proprie sedie in cortile e vivono la giornata fuori di casa, a contatto con la gente, e questo permette una conoscenza reciproca più diretta, che da un lato è certamente positiva ma dall’altro estremamente inquietante. Nella storia, poi, ho inserito molti altri elementi tipicamente meridionali (la balera dove andare a ballare, le amiche che bussano costantemente alla porta) e sinceramente non la immagino applicata ad un contesto milanese, ad esempio.
Parte della critica ha definito “Interno Abbado” una spy story, eppure l’indagine poliziesca resta soprattutto una cornice del profondo conflitto psicologico. Se dovessimo definire il testo secondo un genere, quale sceglieresti?
Pur non essendo, fortunatamente, del tutto comune, la storia della famiglia Abbado tocca i tasti della quotidianità, dell’ossessione che giorno dopo giorno tormenta Rosa Abbado, fino al capovolgimento finale. In realtà il gioco è svelato fin dall’inizio, non ci sono molti elementi da ricomporre per arrivare alla soluzione, come avverrebbe in un giallo alla Agatha Christie. In questo caso, piuttosto che cercare il colpevole si cercano i motivi per cui il crimine è stato commesso, come nei film di Hitchcock.
A proposito di Hitchcock, direi che il riferimento iconografico all’ultima scena di Psycho è evidente sin dall’inizio dello spettacolo. Qual è il rapporto con la sua cinematografia?
Hitchcock rappresenta il “padre storico” di questo testo, che si concentra sulla profonda ossessione di Carlo Abbado e lo fa citando esplicitamente quell’ultima sequenza in cui Anthony Perkins prende le sembianze della madre. Il prestito, ovviamente, va oltre all’immagine e coinvolge direttamente la stesura del testo, non solo a livello drammaturgico ma come scrittura teatrale in senso lato. L’immagine di Psycho è stata una suggestione iniziale, su cui si sono innestati molti altri elementi provenienti da un immaginario comune – costruito tanto insieme quanto individualmente – che inevitabilmente precipita nel lavoro, sebbene trasfigurato attraverso un filtro personale. Giandomenico, ad esempio, è un grande appassionato di film degli anni ’40 e ’50 e ne ha tratto spunto per interpretare il suo personaggio, che si è nutrito a sua volta delle influenze di Hitchcock e delle opere di Durrenmat.
L’ossessione hitchcockiana di Carlo è un pretesto per raccontare l’alienazione che nasce dalla routine del matrimonio o c’è dell’altro?
“Interno Abbado” è una storia x che in questo caso è stata applicata ad un contesto matrimoniale, ma in realtà non parla esclusivamente di quello. Si riferisce, più in generale, a tutti quei legami costruiti su uno schema che prevede una vittima ed un carnefice, trascinati inconsapevolmente fino all’improvvisa registrazione della grana effettiva di cui è fatto il rapporto. In questo caso l’epifania di Carlo Abbado, la realizzazione del fatto di esser stato murato vivo, innesca una reazione imprevedibile, che è il cuore dello spettacolo.
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