G. Murineddu, L’aggabadora, Il filo
LIBRI- Giovanni Murineddu non è un giovane esordiente, classe 1938, professore di lettere e storia ha messo a disposizione la sua esperienza per dire di un tema delicato a attuale: l’eutanasia.
Ma dalla lettura di questo suo libro non ci si devono aspettare dichiarazioni forti e dogmatiche, è un romanzo storico, forma congeniale all’autore che sceglie per l’analisi il linguaggio del romanzo, rendendo maggiormente fruibile un pensiero antico e una discussione attuale.
In un incontro personale, l’autore ci dice che non si tratta di un libro in cui si vuole dare un giudizio di merito sulle azioni o sui dogmatismi della nostra società. Piuttosto si discute di un mondo antico, in cui la morte e la nascita non erano momenti da vivere in solitudine, in cui tutto era esplicito e condiviso. Percepiamo valida l’analisi del professor Murineddu: la morte è scacciata dal pensiero comune e la condivisione non è un momento d’obbligo sociale, come nelle società arcaiche, la società della globalizzazione ha perso il senso della comunanza.
La trama è ambientata in una Sardegna postunitaria e parla di un personaggio antico, l’aggabadora.
-Non si tratta di una figura originale, perché come funzione rituale appartiene a tutti i popoli della terra- ci spiega l’autore. Noi la paragoneremmo quasi ad uno sciamano, anche se fisicamente è un protagonista lontano dalla nostra cultura, nominalmente ci risulta più vicino. In linea di massima, esisteva nelle comunità arcaiche una figura che era apportatrice di vita e di morte, che accompagnava in questi passaggi con una ritualità segreta e orale, tramandata come un dono di generazione in generazione, come farà la protagonista del romanzo, Ghjuanna, con sua nipote Agnese.
“Il suo compito non era quello di uccidere bensì di liberare”, questa una delle definizioni più chiare che troviamo nel testo.
Il nostro scrittore è sardo e sa dire di questa tradizione perché ha avuto modo di sentirne parlare direttamente, cosa problematica anche per gli studiosi di antropologia che hanno trovato difficoltà nel far affrontare l’argomento alle popolazioni locali, logicamente diffidenti rispetto ai “sos istranzos”. Perché sono troppo facili i giudizi improvvisati, troppo facili i moralismi, come quelli degli scrittori e viaggiatori del ‘700 – ‘800 che definivano la Sardegna una terra barbarica e crudele anche per le azioni che dovevano compiere, in risposta ad un determinato contesto sociale, le donne chiamate finadore ma anche aggiutadore, che letteralmente vuol dire aiutanti.
In una società lontana in cui non esisteva una struttura statale e neanche clericale, in cui la vita media era di trentadue anni, nella Gallura dell’800 ci possiamo veramente stupire dell’ esigenza di un gesto di pena e di compassione e forse di una sola esigenza di gestione sociale?
L’agabbadora. La morte invocata, è fondamentalmente una storia d’amore. Un amore clandestino che si esprime anche nell’ultimo gesto, un amore filiale tra una donna e la sua nipote orfana, un amore per una terra che ci racconta ancora qualcosa della nostra tradizione.
Giovanni Murineddu, L’agabbadora. La morte invocata, Il Filo, Roma; pp. 164, 14€
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